giovedì 27 dicembre 2007

Il Dalai Lama a Milano: promettersi Bodhisattva - di Eva Melodia

Dopo burrascose polemiche e infiniti giri di valzer di potenti e potentati, il fine settimana di insegnamenti di Sua Santità il XIV Dalai Lama è giunto a termine firmando la vita di quasi ottomila persone – tale il numero approssimativo dei partecipanti - in maniera si spera il più possibile indelebile.

Egli si è mostrato come tutti lo hanno sempre raccontato, cordiale, giocoso, sorridente, ma evidentemente conscio del proprio ruolo e molto determinato nel proprio obbiettivo palese nel titolo della manifestazione “La via per la pace interiore”, e cioè suggerire che questa pace esiste e che è alla portata di tutti coloro che vogliono ascoltare insegnamenti molto diversi da quelli impartiti costantemente dalla società moderna.
Il breve viaggio nei fondamenti del Buddismo tibetano, di fatto fondamenti di quasi tutte le scuole buddiste del mondo, è cominciato quindi venerdì mattina in una atmosfera incantata da un uomo così eccezionale per i canoni cui siamo comunemente abituati e dal piccolo gruppo di monaci che ne costituivano il seguito, durante il quale Sua Santità ha illustrato brevemente per quanto possibile una panoramica sulla nozione di religiosità umana e su tutte le attuali manifestazioni di questa, con qualche accenno storico-antropologico, utile alle molte persone presenti che forse di buddismo non avevano mai e poi mai sentito parlare.
Senza perdere tempo a confrontare pere con mele, questo doveva servire - ed infatti è servito - ad inquadrare il contesto degli insegnamenti che avrebbe impartito, portando velocemente a poterne comprendere i presupposti logici.
Già da questa prima premessa, io stessa - come testimone spero capace ancora di una qualche imparzialità – ho percepito la grande distanza tra la cultura millenaria del Tibet manifesta nel Dalai Lama e la nostra che di sé, della propria saggezza ed esperienza, sta via via cercando di rinnegare e dimenticare tutto.
Così, ogni volta che usava il sostantivo “esseri senzienti”, precisava qualcosa di scontato per loro e dimenticato da noi e cioè che anche gli animali sono esseri senzienti la cui sostanziale differenza sta nella diversa percezione del sé.
Come qualcuno sa, io sono buddista, ma seguo una scuola diversa e pratico un insegnamento diverso dalla scuola tibetana. Ciò nonostante, in quanto buddista, non ho mai sorvolato su questo basilare fondamento che lega appunto l’illuminazione alla percezione del sé ed alle illusioni che da questa derivano.
In sostanza, se il “sé” è illusorio e provvisorio, determinato da circostanze causali originarie - che ne confermano infatti la vacuità -, è evidente che non può certo essere una diversa percezione del sé a motivare la nostra convinzione di superiorità rispetto ad altre forme di viventi, qualsiasi esse siano.
Per me ciò è lapalissiano ma so quanto non sia evidente a tante altre persone buddiste e non. Purtroppo a conferma di questa mia convinzione, è stato assolutamente troppo frequente il vedere pelli e pellicce indossate dagli ascoltatori degli insegnamenti, e di sicuro parecchi di questi si sono nutriti più e più volte di carni durante quegli stessi giorni.

Io spero che leggendomi, ciascuno dei miei maestri non intraveda nelle mie parole una inutile critica moralista.
La mia vuole essere una semplice constatazione di quanto ormai sia facile vivere in una specie di schizofrenia etica, dove si promette di agire nel bene e di fatto si è comunque consapevoli di fare esattamente il contrario, perché sento il bisogno di cercarne e di trovarne spiegazione razionale, ma anche il dovere di sollevare il problema logico, etico, morale, filosofico e finemente religioso.
Gli insegnamenti sono entrati nel vivo della loro intensità il venerdì mattina, a seguito di una impegnativa lezione sulle maggiori scuole buddiste necessaria a spiegare il convincimento della purezza dell’insegnamento perpetuata dalle scuole tibetane, volendo poi giungere alla spiegazione di taluni passaggi carichi di significato di un testo chiave per molte scuole, e cioè il «Commentario alla Mente dell'Illuminazione» del Pandit Nagarjuna.
Stanza dopo stanza, il Dalai Lama ci ha condotti nella riflessione sul nostro ruolo nel mondo, sulla coerenza e sulla sensatezza del nostro vivere o delle nostre convinzioni, in un’ottica di irrilevanza della percezione limitata della realtà, fino a giungere la domenica mattina al momento topico in cui i presenti sono stati posti di fronte alla possibilità – non l’obbligo ovviamente - di pronunciare il giuramento dei bodhisattva…

Con la Motivazione di liberare gli esseri,
In Buddha, in Dharma, in Sangha,
Fino al raggiungimento dell'illuminazione
Io prendo rifugio sempre.

Con la Compassione e Saggezza
Io, per beneficiare gli esseri prigionieri,
Rimandendo di fronte al Buddha
genero la Mente dell'Illuminazione

Fin quando rimarrà lo spazio
Ci saranno gli esseri,
Finchè rimarrò fra loro
Possa io eliminare la loro sofferenza.


Ho dunque compiuto questo giuramento domenica mattina, nonostante sia convinta che il mantra della scuola di Nichiren, quella di cui pratico gli insegnamenti, sia proprio la stessa promessa ripetuta quotidianamente nei fatti e nelle parole. Ho promesso me stessa davanti al maestro supremo di una altra scuola nonostante mi sia evidente la presenza di differenze filosofiche e di metodo di ricerca, e comunque ben sapendo quanta fatica costi.
Con me migliaia di persone hanno fatto lo stesso giuramento. Molti come me non conoscevano né i rituali, né i passaggi di ciò che avrebbero fatto, ma nonostante questo si è trattato di un gesto importante, intenso, e spero per ciascuno nella propria sincerità, fortemente motivante.
Mi accompagna un dubbio atroce però, sicuramente dettato dalla mia scarsa saggezza e limitata visione dei fenomeni e per questo mi domando: quanti di noi aspiranti e promettenti bodhisattva di qualsiasi scuola, ricordano davvero in ogni momento della vita che la compassione non può e non deve essere rivolta verso il riconoscimento del sé altrui ma esclusivamente verso la loro sofferenza?
Quanti di noi hanno sentito davanti alla Santità del Lama, ma anche di fronte alle esperienze di tutti i giorni, che questa compassione dovrà portarci ad abbracciare ogni molecola della terra e ogni creatura che la abita, per trovare finalmente questa aspirata felicità, perché solo così potremo trasformare questa preziosa terra nella “Terra del Budda”?
In quanti ricorderemo che la “mente dell’illuminazione” è permeata del desiderio di illuminarsi allo scopo di non causare più sofferenza? Quanti di noi mediteranno o pregheranno o reciteranno i mantra ricocordandosi di questa banalità?
Confido molti, spero sempre di più, ma il cieco dubbio è logorante.
Spero che questa promessa così espressa, o espressa in milioni di altri modi partendo da qualsiasi altra religione o filosofia coerente con essa, possa raggiungere ogni uomo, da cuore a cuore, con la consapevolezza che se oggi sembra invece non andare neppure oltre i confini delle proprie case è solo a causa della distorsione di quella iniziale chiave lessicale e cioè “esseri senzienti”, più volte sottolineata dal Dalai Lama come riferita a tutti gli esseri viventi, ma invece così brutalmente riferita sempre più spesso ad una sola specie, quando non addirittura ad ancora più ristretti nuclei di individui.
Questa esperienza è stata infinitamente importante. Impossibile negarlo. Impossibile non riconoscere a tutti coloro che, come il Dalai Lama, portano questo messaggio nel mondo inducendo alla desiderio di promettersi al “bene”, stiano di fatto combattendo la tendenza assolutamente opposta. Vanno sostenuti, al di là delle spesso ridicole differenze di pratica, filosofia, e religione che crediamo possano dividerci. Vanno ringraziati, al di là delle idee diverse che spesso solo per ignoranza, per profonda ignoranza, crediamo di avere abbracciato.

Eva Melodia

lunedì 15 ottobre 2007

Capitini Educatore all'antispecismo - di Ilaria Nannetti


Forse non è usuale accostare Aldo Capitini al pensiero filosofico dell’ antispecismo che, sviluppato in particolare dai filosofi Jeremy Bentham, Peter Singer e Tom Regan, muove i suoi primi passi partendo dalla definizione (e successiva analisi critica) del suo esatto contrario, lo Specismo, analogamente a quanto accade per il termine nonviolenza.
Troppo spesso vengono più o meno consapevolmente confusi e accostati i due termini ‘animalismo’, universalmente compreso e riconosciuto, che può essere semplicisticamente definito come un movimento per la difesa e la protezione dei diritti degli esseri non umani, e ‘antispecismo’, termine che risulta ai più quantomeno nuovo, ma che è di fatto molto più completo e allo stesso tempo più rivoluzionario e sovversivo.
Specismo’ è un vocabolo coniato da Richard Ryder (psicologo inglese convintosi dell’immoralità della sperimentazione sugli animali, precedentemente da lui stesso praticata) sul calco del ben più noto ‘razzismo’, allo scopo di porre in evidenza le analogie tra le due posizioni e dimostrare in tal modo che le motivazioni filosofiche e morali utilizzate per condannare il secondo sono similmente applicabili anche al primo. Di fatto, come l’antirazzismo rifiuta ogni discriminazione basata sulla diversità razziale umana, l’antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro degli altri esseri senzienti.
Come ovvio, tuttavia, la filosofia ‘specista’ non è certo nata nell’ultimo secolo ma risale approssimativamente a 20˙000 anni fa ed è universalmente diffusa in quasi tutte le culture (con importanti eccezioni quali ad esempio buddhismo e induismo), in particolar modo in Occidente, perché strettamente connessa alla visione antropocentrica del mondo che considera gli esseri umani dotati di uno ‘status morale’ superiore e quindi intrinsecamente portatori di diritti in misura maggiore agli altri esseri senzienti non-umani. Considerevoli apporti all’ideologia dello Specismo sono inoltre derivati dal potere e dall’influenza del dogma religioso contenuto nella Genesi biblica:

1:26 ‹‹E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ›› 9:2-3 ‹‹ Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame, e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. ›› (1).

L’ideologia illuminista settecentesca ha successivamente contributo [legittimando il proprio ‘credo’ con il recupero e la rivisitazione del pensiero di grandi filosofi del passato (come Aristotele) o del secolo precedente (come Bacone e Cartesio)] a supportare, rafforzandola, questa concezione dell’uomo, pur partendo da presupposti antitetici : la ragione, l’intelletto che vince sulla superstizione ha lo scopo e il diritto di conoscere e quindi comandare la natura ‘bruta’. Si potrebbe – ma non è qui la sede – continuare a lungo, ripercorrendo le fasi storiche precedenti e successive, ad elencare pensatori e correnti che hanno supportato l’antropocentrismo e dunque lo Specismo.
Sicuramente la strumentalizzazione e l’adattamento illegittimo della teoria evoluzionistica darwiniana della metà del XIX sec. hanno nutrito questo teoria; un’analisi acuta ed accurata delle teorie darwiniane in rapporto alla questione etica è offerta da James Rachels in “Creati dagli animali” – implicazioni morali del darwinismo” (2), al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti in merito.
L’umanità ha dunque da lungo tempo creduto nel legittimo diritto – e talora nel dovere – di dominare, sfruttare, utilizzare per i propri fini la natura e quindi tutti gli esseri ‘senzienti’.
E’ proprio distaccandosi e prendendo le distanze da quest’ottica che pone gli interessi umani al centro e al di sopra di tutto, che nasce la filosofia antispecista, la quale, abbracciando una visione biocentrica dell’esistenza, si propone di ribaltare le premesse a sostegno dello Specismo, ponendo le basi filosofiche e morali per attribuire uguale considerazione di interessi a tutti gli esseri dotati di sensibilità, intendendo il termine come ‘capacità di provare piacere e dolore’, caratteristica intuitivamente indipendente dalla specie di appartenenza.
In Capitini possiamo ritrovare una riflessione analoga a proposito delle metodologie di azione politica e sociale, che sono regolate e guidate dalla visione della realtà che ognuno si crea. Se si concepisce una visione dualistica, che immagina due distinti gruppi di appartenenza, di cui uno privilegiato ed uno inevitabilmente oppresso e asservito si pongono le premesse del classismo e quindi della disuguaglianza. Partendo invece dal presupposto di una visione monistica della vita, nella quale ogni essere è parte di un tutto, (che è poi una rivisitazione ed un arricchimento della visione biocentrica, in cui la vita, in tutte le sue forme è al centro di tutto), viene a cadere qualsivoglia differenza qualitativa tra creature umane e non umane, imponendo di conseguenza un’estensione del principio di ‘rispetto della vita’ anche agli esseri animali (3).
Già Albert Schweitzer, figura eclettica contemporanea di Capitini e a lui assai affine in particolare nella teorizzazione del ‘rispetto della vita’, aveva riflettuto al proposito:

È destino di ogni verità essere oggetto di scherno quando viene proclamata per la prima volta. Un tempo era considerato sciocco supporre che i neri fossero realmente esseri umani e dovessero essere trattati come tali. Quello che era considerato sciocco adesso è una verità riconosciuta. Oggi è considerato un'esagerazione proclamare un uguale rispetto per ogni forma di vita come richiesta di un'etica razionale. Ma verrà il giorno in cui le persone saranno stupite dal fatto che la razza umana sia esistita per tanto tempo prima che venisse riconosciuto che questa sconsiderata distruzione della vita è incompatibile con la vera etica. Etica significa estendere la responsabilità a tutto ciò che ha vita. (4)

Analogamente, l’approccio di Capitini alla questione parte dal presupposto che il criterio fondamentale per raggiungere qualsivoglia obiettivo è la perseveranza, ma mai disgiunta dalla gradualità, dal procedere per piccoli passi, per tappe, ognuna delle quali decreti un seppur minimo successo, un progresso verso un’estensione dell’amore e dell’apertura agli altri, siano essi umani o non umani. Anche Capitini, come Schweitzer, ripercorre i progressi storici in tal senso, auspicando continui miglioramenti, sistematiche ‘aggiunte’: ne “La nonviolenza oggi, p. 60” si legge: ‹‹ (Il superamento) così è avvenuto circa la schiavitù giuridica, così potrebbe avvenire per il salariato proletario; come è avvenuto per l'antropofagia, così potrà avvenire per il carnivorismo›› .(5)
La nonviolenza è anche inquietudine, tensione verso una perfettibilità del proprio atteggiamento e comportamento morale, ed è proprio la sensazione e la certezza che ancora molti sforzi sono da fare, che porta ad un graduale progresso verso forme d’amore e rispetto sempre più omnicomprensive. La soddisfazione per un risultato raggiunto, per un piccolo passo fatto sulla strada per la nonviolenza deve sempre accompagnarsi alla consapevolezza che ancora molto si deve e si può fare: infatti, quanto agli organismi viventi, Capitini auspica che la nonviolenza vada nella direzione dello sforzo verso il maggior rispetto possibile, sia della vita vegetale che animale, indicando nella scienza e nella medicina in particolare, la via per ottimizzare l’uso delle risorse limitandone ai massimi livelli la distruzione. ‹‹Se non si può far tutto, molto si può certamente fare, e si deve: anzi, siamo in ritardo. Chi vuol far tutto, altrimenti non intende mettersi all’opera, non fa nulla e probabilmente non è innamorato della cosa, perché l’amore è attivo›› (6).
A sessant’anni di distanza da questo pionieristico invito di Capitini ad agire è amaro constatare che il “ritardo” si è accumulato e la violenza verso le creature più deboli moltiplicata (sia numericamente che qualitativamente, a giudicare, solo per fare alcuni esempi, dal perpetrarsi della vivisezione, dal moltiplicarsi degli allevamenti intensivi e dei fenomeni ad essi interconnessi. Basti accennare ai continui disboscamenti dei ‘polmoni verdi’ come la foresta amazzonica per far posto a terreni adibiti a pascolo o colture da destinarsi al bestiame ed al conseguente impoverimento e malnutrizione cronica delle popolazioni cui questi stessi terreni vengono sottratti.
A proposito delle implicazioni connesse all’allevamento degli animali, tale pratica non è stata mai del resto condannata esplicitamente da Capitini, ma per ragioni che definirei sia culturali che soprattutto cronologiche. E’ infatti del tutto evidente che l’allevamento ‘a conduzione familiare’ o ‘il modello fattoria’ come oggi si suole chiamare, pur privando comunque gli esseri non – umani allevati del diritto ad una vita libera e selvatica, stabiliva una sorta di “alleanza” tra uomo e animale, alleanza basata su forme di rispetto più accettabili, in cui all’animale allevato venivano garantiti cibo e protezione in cambio di carne, uova, latte ecc…
‘Il modello fattoria’ non altera il rapporto di forza, non muta l’ideologia del dominio, ma garantisce, stabilendo un rapporto di conoscenza più stretto tra uomo e animale, condizioni di esistenza migliori, nonché una sostenibilità ambientale accettabile.
Capitini non ha potuto conoscere a fondo il cambiamento radicale che, in Italia a partire dal secondo dopoguerra, ma con sviluppi devastanti soltanto a partire dalla fine degli anni’60 inizio anni ’70 ha investito questo settore cosiddetto ‘di sviluppo’. L’applicazione delle metodologie industriali della catena di montaggio agli allevamenti ha creato forme insostenibili di sfruttamento e oppressione e pericolosamente gettato le basi per un successivo degrado ambientale che ai giorni nostri è purtroppo tangibile e difficilmente arrestabile. Mangiare carne oggi, ma ugualmente nutrirsi di prodotti animali derivati, significa, purtroppo, sostenere un sistema economico iniquo, ma anche dispendioso, inefficiente e gravemente inquinante, che ha una diretta ripercussione sui Paesi più poveri e sull’ambiente.
Per avere un’idea del solo impatto sociale del consumo di carne e prodotti derivati (trascurando, perciò, ma unicamente per ragioni di sintesi, l’impatto sull’ambiente e la sofferenza animale) basti accennare allo studio dell’economista francese Frances Moore Lappé la quale ha calcolato che in un anno, nei soli Stati Uniti, sono state prodotte 145 milioni di tonnellate di cereali e soia utilizzati per il nutrimento degli animali da allevamento; per contro, sono stati ricavati 21 milioni di tonnellate di carne, latte, uova. E’ evidente che la differenza di 124 milioni di tonnellate di cibo sprecato è intollerabilmente alta e ancor più se si considera che equivale ad un pasto al giorno completo per tutti gli abitanti della terra! (7).
E’ senz’altro una verità scomoda da accettare, ma occorre rendersi conto del problema e iniziare, da subito, a porvi rimedio tramite una delle metodologie di lotta nonviolenta più semplice: il boicottaggio.
In altre parole Capitini non avrebbe potuto ritenere eticamente sostenibile servirsi anche soltanto dei prodotti così detti ‘derivati’, escludendo soltanto la carne dall’alimentazione, essendo a conoscenza che la brutalità di trattamento ad esempio dei bovini ‘da latte’ o delle ‘galline ovaiole’ è pari o addirittura peggiore di quella riservata agli stessi animali allevati per la loro carne e tantomeno potendo oggi verificare il drammatico retroscena che si cela dietro ad un’abitudine alimentare consolidata e diffusa da secoli di ‘cultura del dominio’.
Del resto, con il messaggio della ‘tensione’, a progredire sempre sulla strada della nonviolenza, Capitini ha fatto ancor di più che se si fosse fatto soltanto promotore del veganesimo (anziché del vegetarianesimo): ha aperto ancor più la strada a possibili perfezionamenti nel campo dell’etica del rispetto della vita.
Capitini non ha invitato – in quest’ottica - soltanto al vegetarianesimo, ma ha metaforicamente dato la prima, importante spinta alla celeberrima sfera sul piano inclinato: sta ad ognuno di noi verificare dove essa sia arrivata, quanta strada abbia fatto finora e se sia o meno necessario cambiarle percorso o accelerarne il moto. E’ soprattutto utile partire, ciascuno come ritiene più opportuno e consono, a piccoli passi o bruciando le tappe, ma senza aspettare che altri diano avvio al cambiamento: del resto, Capitini stesso ne dice:

[...]troppe nefandezze sono oggi compiute "a fin di bene" ; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto. E bisogna rifarsi dal fondamento originario..., dall'inizio, dal basso, dall'esistenza dei singoli proprio come esistenti, ed amarli proprio come tali, come fa la madre. Se non tutti faranno così, sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto (8).

C’è un aspetto da considerare, tuttavia, del pensiero di Capitini, che sembra solo apparentemente in contrasto con la filosofia antispecista: Capitini muove sempre la sua riflessione dall’umanità, e dalla consapevolezza, che deve essere presente in ogni individuo, della fortuna di appartenere al genere umano, nonostante talora ci sentiamo attratti dalla semplicità e dalla spontanea vicinanza a Dio propria di creature meno complesse e più umili. ‹‹Ma la persuasione più intima a noi è di essere umani, che tali torniamo ad essere ad ogni istante e tali desideriamo di tornare e vederci negli altri esseri umani ›› (9)
Tuttavia, il suo pensiero si arricchisce di una suggestione che tanto rimanda al ‘Cantico’ Francescano, quando elabora il concetto di ‘amore religioso’ che ‘muove verso le cose’ -inanimate dunque-definite ‘sorelle’. ‘La nonviolenza verso le cose sta nel…non mostrare burbanza in mezzo ad esse, nel considerarle anzitutto come contenuto di amore religioso al di sopra di ogni utilità’
E’ con quest’ultima riflessione che si può aprire un ulteriore, fecondo parallelismo tra Capitini ed uno dei maggiori filosofi dell’antispecismo: Peter Singer, proprio a proposito della determinazione dei mezzi e dei fini.
Sappiamo che Immanuel Kant, nel 1780, durante le sue lezioni di etica, così diceva ai suoi studenti: ‹‹Per quanto riguarda gli animali, noi non abbiamo nessun dovere diretto nei loro confronti. Gli animali non hanno autocoscienza e quindi non sono che dei mezzi rispetto ad un fine; tale fine è l’uomo›› in Lezioni di etica.(10)
Proprio nello stesso anno, usciva però anche una voce fuori dal coro, che tanto ricorda il pensiero capitiniano: quella di Jeremy Bentham che pioneristicamente sosteneva:

Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare una linea invalicabile? La facoltà della ragione o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone più comunicativi di un bambino di un giorno, si una settimana o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: ‘Possono ragionare?’, né: ‘Possono parlare?’, ma: ‘Possono soffrire?’ (11)

Tornando alla determinazione dei mezzi e dei fini, Capitini ne La nonviolenza oggi, Edizioni Comunità –Milano,1962 considera la distinzione kantiana come ampiamente superabile in nome di un progredire ed un ampliarsi della sfera di azione nonviolenta: ‹‹progresso sta proprio nell’ampliare la sfera di ciò che è fine e per es. l’esistenza dello schiavo valeva una volta semplicemente come mezzo, ora invece vale come fine›› (12).
Il non porsi barriere invalicabili è dunque fondamentale per abbandonare quell’egocentrismo che Capitini identifica come una delle forme in cui si manifesta il ‘peccato di chiusura’, superabile appunto sentendo tutti i viventi compresenti e non più escludendo dalla considerazione e dall’interesse gran parte delle forme di vita.
Il comportamento essenzialmente ‘inerziale’ dell’essere umano in campo animale, che si manifesta in un susseguirsi di atti violenti, percepiti, dal singolo, più o meno consapevolmente, deve subire una scossa, ed essere prima di tutto compreso, ragionato, soppesato.
A niente valgono, ed anzi, risultano controproducenti coercizione e condanna delle usanze consolidate, poiché l’essere umano adulto per natura tende a difendere posizioni e credenze acquisite e radicate.
Più utile può risultare la persuasione, ma ancor più produttiva credo possa essere l’arte della maieutica di socratica memoria: credo infatti, con Capitini, presente nell’essere umano un enorme potenziale positivo, e in particolare ritengo che ognuno, raggiunto il pieno possesso degli strumenti conoscitivi adeguati e quindi delle doverose informazioni sull’argomento, debba compiere un personalissimo percorso interiore per giungere ad una altrettanto personale conclusione.
L’educazione, fin dall’infanzia, alla riflessione e all’elaborazione di proprie idee libere da preconcetti e barriere sociali è essenziale e, nel caso in questione, particolarmente utile, vista la naturale empatia e l’affetto che in genere i bambini provano nei confronti degli animali, sentimento che paradossalmente spesso viene riversato su giocattoli di peluche, simulacri di animali reali, di cui quotidianamente, e spesso del tutto inconsapevolmente si nutre.
Questa ‘inconsapevolezza’, che in realtà altro non è se non una forma di rimozione, porta di fatto anche l’adulto a recidere qualsivoglia collegamento tra il cucciolo di peluche e il corrispettivo reale che ha nel piatto, per non dover confrontarsi con rimorsi o sensi di colpa.
Si tratta di un comportamento tanto paradossale quanto diffuso nella nostra cultura, ma cominciare a riflettere ed analizzare la questione può essere il primo passo per imboccare una strada diversa, più consapevole e rispettosa della vita in tutte le sue forme.
Del resto scegliere che cosa mangiare è prerogativa umana e rientra nella sfera della libera iniziativa, della capacità di arbitrio propria dell’essere umano. In tal senso la scelta vegetariana rende – sostiene Capitini – liberi da una mentalità acquisita, dalla convinzione sbagliata che le creature prima utilizzate come nutrimento siano semplici mezzi dei quali abusare. Non solo: Capitini ricorda anche che il vegetarianesimo in un certo senso ‘purifica’ anche il corpo, evitando l’introduzione delle tossine che, le carni dell’animale, provato da stress e paura, inevitabilmente contengono.
Anche Singer ne Liberazione Animale (13)riflette analogamente sulla questione sostenendo che se siamo disposti a togliere la vita a un altro essere soltanto allo scopo di soddisfare il nostro gusto per un particolare tipo di cibo, quell’essere non è niente di più che un mezzo per i nostri fini.
E’ noto che tra le motivazioni più facilmente addotte per sorvolare o quantomeno rimandare la questione sulla condizione di oppressione degli esseri non-umani c’è l’assunto che ‘gli esseri umani siano al primo posto’ e che nessuna questione riguardante gli animali possa essere ragionevolmente comparata ai problemi riguardanti gli umani. Certo si potrebbe tacciare questo assunto di ‘Specismo’ ma non possiamo dubitare del fatto che al mondo esistano problemi gravi che meritano attenzione ed energia come fame, povertà , guerra, minaccia di distruzione atomica, questione ambientale ecc… A questo proposito i punti da esaminare sono essenzialmente un paio: il primo riguarda lo stretto legame che intercorre tra molti di questi problemi, legati, tra l’altro, più o meno direttamente con il consumo di alimenti di origine animale. Tale legame non sempre è colto dalla collettività, che spesso tende a concentrarsi sul singolo problema senza valutarne l’impatto globale.
Non tutti sanno ad esempio quanto aggravi l’inquinamento ambientale l’immissione dei circa 19 milioni di tonnellate annue di deiezioni animali, ricche di metano, sostanza corresponsabile dell’effetto serra. Per non parlare dell’inquinamento delle falde acquifere, del disboscamento feroce della foresta pluviale dell’America Centrale e Meridionale, metà della quale è stata abbattuta per l’allevamento (fonte FAO e USA Agency for International Development). Potremmo continuare così a lungo stabilendo legami e correlazioni di questo tipo.
Il secondo punto da prendere in considerazione è che molto spesso, più o meno consapevolmente si ha la tendenza a mettersi sulla difensiva, utilizzando genericamente la priorità dei ‘problemi umani’ per non riflettere sulle azioni che potrebbero essere compiute in favore dei non-umani. In sostanza, nessuno vuol confutare il fatto che l’impegno attivo per una causa impieghi tempo ed energie che non potranno quindi essere utilizzate per sostenere un’altra causa; per fare un esempio, chi si occupa attivamente per combattere la guerra non avrà tempo e forze da dedicare alla lotta alla vivisezione.
Questo è un dato di fatto, che tuttavia non è incompatibile e non implica affatto che quella persona non possa aderire al boicottaggio dei prodotti della crudeltà dell’allevamento industriale, dal momento che non occorre più tempo per essere vegetariani di quanto ne occorra per nutrirsi di carne. Ed è questo il punto fondamentale su cui soffermarci: la relativa semplicità di una scelta come quella vegana, poiché tale scelta non solo non interferisce minimamente con progetti e programmi che riguardino la solidarietà con gli esseri umani, ma addirittura si lega profondamente a questo sentimento, poiché sospendendo il consumo di carne e derivati si accresce di conseguenza la quantità di cereali disponibili per nutrire popolazioni in difficoltà, risparmiando nel contempo acqua energia e foreste.


Bibliografia

1. Bibbia, Genesi (1:26 / 9:2-3)
2. James Rachels, Created from Animals, BPOD, 1991; trad it. Creati dagli animali – implicazioni morali del darwinismo, Milano, Mondadori, 1996
3. Aldo Capitini, La nonviolenza, oggi, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, p. 63
4. Albert Schweitzer, Kultur und Ethik. Kulturphilosophie. Zweiter Teil, C. H. Beck, Muenchen 1953 (1° ed. 1923)
5. Capitini, La nonviolenza, oggi, cit. p. 60
6. Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza, Antologia degli scritti a cura di Mario Martini, Pisa, Edizioni ETS, 2004, p.43
7. Frances Moore Lappé, Diet for a small planet, New York, Ballantine books, 1982, pp. 69-71
8. Capitini, Le ragioni della nonviolenza, p. 41
9. Capitini, Le ragioni della nonviolenza, p. 42
10. E. Kant, Lezioni di etica, trad. it., Laterza, Bari 1971, p. 273.
11. J. Benthan, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Oxford, Clarendon Press, 1907 (1° ed. 1789) cit. cap
12. Capitini, La nonviolenza, oggi, cit. p. 60
13. Peter Singer, Animal liberation, New York Review/Random House, 1975; revised edition, New York Review/ Random House, 1990; trad. it. Liberazione animale, Milano, Il Saggiatore, 2003
14. Capitini, Lettera di religione n°18, (presentata come contributo al Congresso vegetariano che si svolgerà al C O R di Perugia il 14 giugno 1953)

lunedì 1 ottobre 2007

Vegetarianesimo e nonviolenza - di Irene Fabbri Del Serra

Report della conferenza della prof. Luisella Battaglia al Vegfestival2007

Luisella Battaglia, nata a Genova nel 1946, è professoressa associata di Filosofia Morale presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, nonché direttrice dell’Istituto Italiano di Bioetica. Tra le sue opere: La questione dei diritti degli animali (Torino 1989) e Etica e diritti degli animali (Laterza. U.L. 1997).
Battaglia esordisce prendendo in esame il termine "dietetica", che etimologicamente può essere inteso come "etica della dieta", richiamando così l'attenzione sulla responsabilità (individuale e collettiva) rispetto alle proprie scelte alimentari. L'antropologo John Harris ha tematizzato la dissociazione insita nell'atteggiamento corrente verso gli animali non umani attraverso la dicotomia "animali buoni da mangiare/animali buoni da pensare": i primi gli animali d'allevamento, che trascorrono le loro vite di sofferenza lontano dal nostro sguardo e dalla nostra considerazione, i secondi gli animali domestici da affezione, con cui condividiamo le nostre case e che non ci sogneremmo mai di mangiare. Tale categorizzazione, e i comportamenti che ne derivano, dipendono interamente dai pregiudizi culturali propri della nostra società, infatti tutte le nostre abitudini alimentari sono di origine puramente culturale (tanto in relazione al valore simbolico associato al cibo, quanto alle ripercussioni economiche del nostro modo di nutrirci).
Secondo Battaglia l'etica della nonviolenza di matrice gandhiana costituisce la via da percorrere per superare questa nefasta dissociazione culturale. La nonviolenza non deve essere intesa riduttivamente come semplice disobbedienza o resistenza passiva, ma nel suo significato originario di "satyagrha", ovvero "forza della verità". La vera nonviolenza infatti è esattamente l'opposto di una mera strategia di rinuncia al conflitto adatta a giustificare il debole e il codardo, è in realtà la filosofia di vita e di lotta propria del forte, cioè di colui che crede profondamente nella verità delle sue idee, e quindi non ha bisogno della violenza perché non ha bisogno di vincere il suo nemico, ma mira piuttosto a convincere il suo avversario. In un'ottica nonviolenta dunque è fondamentale la tolleranza, intesa non come accettazione di tutto, ma come atteggiamento di rispetto della diversità, che si concretizza nel combattere anche duramente le idee dell'avversario senza però venir meno al rispetto della sua persona. In questo modo il comportamento nonviolento, instaurando un autentico dialogo che ha il rispetto reciproco per presupposto, può riuscire a spezzare quel circolo vizioso attraverso il quale la paura genera violenza, che a sua volta alimenta la paura, in una spirale senza fine. Gandhi stesso insisteva molto su questo aspetto, sottolineando sempre l'importanza della lealtà anche nel contesto dello scontro politico, e ricordando che ogni forma di disprezzo e/o demonizzazione dell'avversario costituisce una forma di violenza, ed è quindi deleteria per la causa della verità. Nella visione gandhiana dell'ahimsa il vegetarismo come scelta consapevole è la principale testimonianza del riconoscimento della fraternità universale, ovvero dell'adozione di un'"etica cosmica" che comprende tutte le creature viventi nella definizione di "prossimo". Ogni animale, in questa prospettiva, ha diritto di vivere quanto ogni altro (uomini compresi) e ha diritto al rispetto della propria identità in quanto "soggetto di una vita". Ed è infatti proprio attraverso l'annullamento sistematico dell'individualità (e della sua percezione da parte nostra) degli animali d'allevamento, ottenuto tanto con la segregazione fisica quanto mediante una strategia linguistico-culturale specista che li massifica e reifica definendoli col nome collettivo di "bestiame", che viene allontanata dalle nostre coscienze la consapevolezza della fraternità universale e del telos (scopo/destino/possibilità di vita) originario a cui ogni animale è naturalmente chiamato.
Storicamente il movimento "animalista" nasce in Inghilterra alla fine dell''800, in seno ad un più ampio emergere di istanze progressiste per l'allargamento delle frontiere morali e il riconoscimento di diritti civili e sociali ad altri soggetti "deboli" come le donne, i bambini, gli schiavi. Significativamente il primo saggio pubblicato dedicato a questo tema è quello di Henry Salt dal titolo I diritti degli animali in relazione al progresso sociale (Salt, H., Animals' Rights Considered in Relation to Social Progress, 1892). L'immagine del cerchio della considerazione etica che si espande progressivamente, a partire dalla presa di coscienza del fatto fondamentale che la capacità di soffrire accomuna tutti gli esseri senzienti ben oltre le differenze di genere, razza o specie, è una efficace rappresentazione dell'irrinunciabile saldatura tra l'aspetto morale e quello politico nella teoria e nella pratica della nonviolenza, e allo stesso tempo un continuo richiamo a contestualizzare la lotta animalista in un impegno etico a tutto campo. L'adesione alla nonviolenza infatti implica l'assunzione di un atteggiamento organico di "cittadinanza attiva", capace di comprendere la comunanza di destino tra uomini, animali e pianeta. In Italia la rivendicazione di considerazione etica per gli animali si manifesta come movimento di opinione negli anni '70 del '900, in seguito alla crescita della coscienza ecologica e allo sviluppo dell'etologia, ma non si può non ricordare che già negli anni '50 Aldo Capitini aveva autonomamente elaborato una filosofia "animalista" basata sul concetto di nonviolenza e primariamente ispirata al riconoscimento dell'animale come prossimo, con l'intento di contrapporsi sia alla tradizione culturale di stampo cartesiano, sia al cristianesimo istituzionale (fortemente antropocentrico) in qualità di "religione aperta", laica e spontaneamente originata dall'interiorità del soggetto morale.

lunedì 24 settembre 2007

"Indovina chi viene a cena? Il riscaldamento globale!" - Ovvero news vecchie e tendenziose di Eva Melodia e Irene Fabbri del Serra

Anche stasera (22 settembre 2007) qualche milione di persone ha avuto la sfortuna, più o meno masochista, di seguire il TG1, durante il quale qualche spettatore attento ha rischiato di svenire scoprendo che nella scaletta era stata inserita una notizia non solo interessante, ma anche rilevante.

Con infinito stupore, tra un matrimonio di riccone e un record di grandezza di lasagne battuto, per una volta hanno dedicato ben mezzo minuto (circa), “udite udite”, allo scioglimento dei ghiacci.
Il servizio, ispirato da profondo stupore per il fenomeno degli orsi polari e le foche che annegano, ha addirittura citato il fatto che i cuccioli di foca non sono più cacciabili perché muoiono annegati prima ancora che qualche primate in giacca e cravatta li bastoni in testa, non mancando naturalmente di citare gli animalisti che – secondo loro - almeno in questo, troverebbero una minima soddisfazione.
L’argomento era talmente drammatico da doversi mettere a piangere, il servizio talmente superficiale e tendenzioso da doversi rimettere a piangere non appena esaurite le lacrime per il motivo precedente.
Sta di fatto che in Italia (ma non solo) la verità è vera solo se la dichiara Rai 1 (o il servo della gleba di turno), e per questo ci sarebbe da chiedersi se stasera l'italiano medio, l'europeo medio, il consumatore medio, il possidente medio, l'essere umano medio, si sia finalmente e seriamente preoccupato oppure no.
Ci si aspetterebbe infatti un collettivo crollo dell'appetito, agitazione, qualche attacco di panico, telefonate ai ministeri in cerca di rassicurazioni, mentre invece nella vita reale (o meglio, in questa vita surreale), non accade nulla di tutto ciò: si passa subito e di buon grado a sorbirsi il servizio sulla Campbell e sul suo impegno contro le alluvioni in Inghilterra.
L'evidente gravità di una situazione come quella attuale, non si sa perché, è considerata tale solo dai protagonisti dei film catastrofisti, in cui di fronte ad un'apocalisse imminente o in atto, gli esseri umani accendono la spia rossa e cominciano a collaborare per salvare la buccia, e magari ripristinare quel minimo di buon senso necessario per tirarsi fuori dalle beghe e dimostrare di avere imparato la lezione. Ma nello stato di alienazione in cui stiamo vivendo non c’è spazio per la realtà, tanto meno se rischia di rovinarci l’appetito. Che diamine! Siamo consumatori, soprattutto di cibo. Non possiamo permetterci di far crollare il mercato.
Resta il fatto che, per qualsiasi persona realista e responsabile, un orso bianco che muore annegato non può proprio essere considerato un “aneddoto” utile a rimpinguare un patetico e noioso telegiornale, né tanto meno può apparire come una novità. E’ invece un allarme apocalisse, appunto, uno tra le miriadi che da almeno trenta anni ogni essere veramente senziente e capace di parola sul pianeta non ha esitato a riferire, illustrare, mettere in rilievo, ammonendo e rimproverando questo assurdo sistema umano, il tutto al fine di non giungere fino a dove siamo purtroppo giunti.
Uno dei tanti rilevanti esempi, a dimostrazione che i media in Italia arrivano in ritardo e male su questioni vitali, vanificando completamente il loro compito sociale, è sicuramente quello di Al Gore. Questo americano ricco e piuttosto potente (per nulla santificabile), grazie ai suoi molti soldi ed a un potere coerente con la vicepresidenza degli Stati Uniti, ha cercato di portare l'allarme riscaldamento globale ovunque, e già nel 2005 denunciava al mondo il ritrovamento degli animali polari annegati attraverso la produzione di un importante film che tutti dovrebbero avere visto, o almeno vedere il prima possibile: “Una scomoda verità”.
Insomma, già nel 2005 la produzione di questo film sfidò lo status quo, facendosi portavoce di dati e fatti drammatici in maniera esasperante, ripetendo di fatto ancora una volta le tesi allarmistiche e sfruttando gli aneddoti come gli orsi polari annegati, per risvegliare quel minimo di buon senso necessario a salvarci dalla rovina totale.
Domanda: Il TG 1 nel 2005 dov’era?
Dove erano tutti i media? Quanti di noi hanno visto il film, anche solo per poterlo criticare?
Risposta: troppo pochi. L’occultamento mediatico ha funzionato talmente bene che i media stessi non si sono accorti di nulla.
Proprio per questo, per questo buco informativo, pochissimi di noi si pregeranno di ricoprire di insulti Rai 1 denunciando lo scempio di servizio che offre alla nazione tutta, con notizie incomplete, tendenziose, e un tantino anacronistiche, così da ridurle (tanto per cambiare) solo a “news”, scollegate tra loro e sfuggenti, e non mostrale come la cima dell’iceberg, quali invece effettivamente sono.
Il servizio in questione addirittura citava “studiosi esterrefatti” da questo strano fenomeno di scioglimento repentino dei ghiacci. Solo per questa frase forse bisognerebbe citarli per danni, vista l’affermazione sottintesa (e che purtroppo passa), e cioè che trattasi di fenomeno quasi intangibile, privo di controllo, fugace, fuori portata.
Questi sono gli organi di informazione. E noi forse il nostro organo di informazione ce lo abbiamo in cantina da tempo, visto come siamo diventati manipolabili e fragili. Siamo come spugne che si bevono ogni idiozia, più o meno consapevolmente, anche quelli tra noi più agguerriti oppositori del regime specista-consumista.
Un esempio banale è di nuovo da rilevare nel fenomeno Al Gore, e nella sua iniziativa chiamata Live Earth. Al di là del merito, questo evento in Italia è passato in sordina, sopratutto lontano dall’attenzione di chi normalmente di ambiente si interessa. In un attimo è stata fatta passare l’idea dell’incoerenza intrinseca al progetto, e di fatto, il progetto in Italia non è neppure stato valutato dalla gente comune ma comunemente attiva. Come non fosse successo nulla.
Allora forse è il caso di ripetere un po’ per tutti come stanno le cose e in maniera semplice, stando agli ultimi dati ONU, FAO, ma anche di organismi meno famosi e decisamente più attendibili.
In sostanza: siamo nella pece. Fino al collo. L’invito ad approfondire è doveroso, in particolare presso il sito di www.climatecrisis.net.
Ma è meglio ricordare ancora una volta che il tanto pericoloso effetto serra è causato dall’uomo, dalle sue brutte abitudini, dalle sue potenti tecnologie, e dal numero spropositato di individui di cui l’umanità si vanta (indipendentemente da quanti di questi muoiono tutti i giorni di fame, malattie e povertà, per merito di quelli che come noi si godono i vantaggi di una certa inerzia e pigrizia radicale), e che questi tre fattori, con particolare rilievo delle cattive abitudini, si possono attribuire esclusivamente alla cultura specista con tutto ciò che essa comporta.
E’ bene anche ricordare che il 60% del disboscamento delle foreste amazzoniche è, di nuovo, causato dall’uomo, o dal fenomeno uomo-consumatore, che non ragiona con il cervello ma con lo stomaco e che per questo fa crescere a dismisura gli allevamenti di animali da macello, i quali - poveracci - non solo per vivere succhiano energie come una Ferrari, ma appunto disboscano, e tra gas intestinali, escrementi e scarti immettono nell’atmosfera la maggior parte del gas serra che tra poco ci soffocherà tutti.
Tutti questi dati, gli spunti e le riflessioni, sono pubblicati e fruibili grazie ad internet, ed è ormai un obbligo morale affrontarli.
Con buona pace della Rai e del TG 1, che di fatto non servono assolutamente più a nulla.

Eva Melodia e Irene Fabbri del Serra

giovedì 21 giugno 2007

Colloquio con Julia Butterfly Hill di Daniele Fanelli

Aveva ventitré anni quando, nel 1997, salì su una sequoia californiana per impedirne l'abbattimento. E ne aveva venticinque quando toccò di nuovo terra, dopo che la locale compagnia di legname ebbe ceduto alle sue richieste, impegnandosi a proteggere quell'albero e un po' di foresta circostante. Celebre da allora in tutto il mondo, Julia Butterfly Hill è una delle figure più affascinanti dell'attivismo ecologista. Scrittrice e poetessa, il libro in cui racconta la sua battaglia è diventato un best seller internazionale, e sarà presto soggetto di un film. Nel 1999 ha fondato la "Circle of Life", che si occupa di ambiente e diritti umani promuovendo campagne internazionali di sensibilizzazione ed educazione.
È stata ospite, a Torino, del recente Vegfestival (celebrazione dello stile di vita "vegano", che evita qualsiasi prodotto animale) dove con umorismo ha illustrato la sua attività e il suo credo ecologista. Mangia solo prodotti vegetali da più di 18 anni e consiglia a chiunque di fare altrettanto. Ma riconosce qualche eccezione: «Lavoro anche con le comunità indigene in Alaska», ha spiegato coraggiosamente al pubblico presente: «E per loro la dieta carnivora è senz'altro la più sostenibile». Una posizione, questa, tanto più interessante in quanto espressa da una figura di riferimento dell'attivismo animalista.


Ammette altre eccezioni alla regola di non mangiare animali?
«Per la maggior parte di noi, e per la maggior parte delle stagioni, la scelta vegana è la più sostenibile. Nel nostro mondo industrializzato, la maggior parte delle persone ha il privilegio di scegliere cosa mangiare, e può quindi cercare di camminare il più possibile "in punta di piedi" nel mondo, adottando una dieta vegana. Ma, ad esempio, ci sono aree in cui i vegetali d'inverno non crescono. Produrli o trasportarli da lontano avrebbe un impatto ecologico eccessivo. Dunque, per le persone che vivono in queste zone e che sono prive di mezzi, vivere dei prodotti della terra può non essere la scelta migliore. Io stessa sono cresciuta in una famiglia molto povera. Avevamo degli amici che vivevano in campagna, e che a volte cacciavano i cervi. Usavano ogni parte dell'animale, e ne davano delle porzioni anche a noi. E quella carne per noi era davvero necessaria. Anche molte scelte fatte in ambito vegano non sono realmente sostenibili. Perché sono basate sull'economia del petrolio, che è destinata al collasso. Per queste mie idee, io sono considerata una radicale persino da alcuni vegani».

Se esistono eccezioni al non nutrirsi di selvaggina, allora non potrebbero essercene alla caccia in generale? Per causa nostra, oggi molte popolazioni animali sono fuori controllo, e secondo molti la caccia aiuta a mantenere l'equilibrio perso.
«In questo genere di situazioni, occorre pensare più criticamente. Se qualcosa è fuori controllo, è perché il sistema nel suo complesso è squilibrato. Anche negli Usa, ad esempio, le malattie si stanno diffondendo fra i cervi, che sono troppi in quanto ne abbiamo eliminato i predatori. Ma la risposta non è cacciare i cervi. La risposta è tentare di ripristinare l'equilibrio dell'ecosistema, reintroducendo i predatori».

Che cosa pensa invece di quegli attivisti che liberano animali esotici da pelliccia nel nostro ecosistema, causando ulteriore squilibrio ambientale?
«Permettere che gli animali siano torturati per produrre pellicce è inaccettabile. Ma non è nemmeno molto compassionevole liberare questi animali in un ambiente per loro innaturale. Dovrebbero essere liberati dalla tortura, ma vivere in un ambiente a loro consono. Soprattutto quando siamo giovani e con la testa calda, non pensiamo molto criticamente, e rischiamo fare le cose più stupide. Quindi, penso che sia necessario spiegare meglio questo genere di problemi agli attivisti».

C'è chi, almeno in questi casi, parlerebbe di estremismo…
«La gente li chiama estremisti perché infrangono le proprietà e liberano gli animali. Definiscono persino me un'estremista, perché ho "occupato" un albero per due anni. Ma è quello che sta accadendo al nostro mondo, che è estremo. È estremo torturare gli animali. È estremo radere al suolo antichissime foreste. Non andiamo in giro a rischiare la vita e la libertà per divertimento. Lo facciamo per cercare di rimettere le cose in equilibrio. Ma è vero che, appassionandoci e infuriandoci per i problemi che abbiamo di fronte, non sempre pensiamo a sufficienza in termini di lungo periodo prima di agire».

La Gran Bretagna in questi giorni è teatro di una guerra aperta fra governo e gruppi di animalisti che vogliono impedire la vivisezione. Quale è la sua posizione? «Molti dottori e scienziati hanno dichiarato in modo inequivocabile che sperimentare sugli animali non aiuta l'umanità quanto si pensa, specialmente in confronto ai danni che causa agli animali stessi. Grazie all'avanzamento delle tecnologie, ci sono oggi modi di migliorare la salute umana senza torturare gli animali. E da un punto di vista ambientalista, mi fa infuriare il fatto che non si investa più danaro per comprendere quali siano le cause delle nostre malattie».

Ma se la vivisezione fosse davvero inutile, non credo che sarebbe impiegata così spesso…
«Si, ma adesso è usata per sperimentare farmaci e sostanze chimiche di cui non avremmo bisogno. Spendiamo miliardi di dollari torturando animali per creare medicine che la maggior parte delle persone non può permettersi. E lo facciamo per rimediare a danni che ci causiamo da soli: con le sostanze tossiche che rilasciamo nell'ambiente e i nostri stili di vita non salutari. In California c'è adesso una legge per cui gli edifici pubblici costruiti con determinate sostanze chimiche note per essere cancerogene, sono obbligati a esporre un cartello che lo dichiara. Si tratta di sostanze presenti nelle vernici, nei prodotti per la pulizia, persino nei nostri letti. Se la stessa legge fosse applicata alle case private, praticamente tutte le case statunitensi, e probabilmente anche quelle italiane, dovrebbero esporre dei cartelli che dichiarano "Questa casa ha sostanze chimiche note per causare il cancro". Nessun animale ha bisogno di essere torturato per capire cosa stia causando le malattie del nostro mondo».


E cosa pensa degli Ogm?
«Mi terrorizzano. Perché il laboratorio in cui stiamo sperimentando gli Ogm è il nostro pianeta. E stiamo usando noi stessi come cavie. Questi prodotti sono analizzati in laboratori e in situazioni controllate. Così si dichiara che sono sicuri, e vengono liberati nell'ambiente, che è invece un laboratorio in cui non sono ancora stati provati. Di tanti farmaci si è detto che erano sicuri; poi, una volta immessi sul mercato, la gente ha cominciato a morirne e sono stati ritirati. Ma non possiamo ritirare gli Ogm, una volta che si siano diffusi nell'ambiente. Alcuni di questi prodotti si sono già dimostrati nocivi alla salute o agli ecosistemi. E io applaudo chiunque agisca per fermare questa macchina di distruzione».


Alcuni affermano di voler modificare il riso, ad esempio, per aggiungervi proteine in modo da combattere la fame nel mondo…
«Perché invece non ci occupiamo del fatto che in alcune nazioni si muore di obesità e in altre di fame? Sarebbe molto più utile che non modificare geneticamente del riso per inserirvi le proteine. Ma come per la caccia, è un approccio sistemico che non vogliamo adottare».


Da laureata in economia, in quale misura pensa che il libero mercato sia compatibile con le politiche per cui si batte?
«Se avessimo un mercato equo, io lo sosterrei. Ma il nostro mercato non è equo, perché non è davvero libero. È libero solo per poche grandi corporazioni, che ricevono sussidi in tutto il mondo, per fare cose terribili. Sono a favore dell'economia, ma contro il capitalismo. Sono cose ben diverse. I termini economia ed ecologia hanno la stessa radice
"eco-" che significa casa. Economia letteralmente significa "prendersi cura del proprio posto". Se avessimo un sistema in cui ci si arricchisce occupandosi della Terra e degli altri, allora vorrei che le persone facessero quanti più soldi possibile. Non credo che, prendendosi cura del pianeta, le persone si arricchirebbero tanto da comprarsi ville da milioni di dollari. Ma questo sistema è comunque non sostenibile. E i soldi sono un mito, non una cosa reale. Per lungo tempo gli uomini hanno commerciato per migliorare le loro vite. Si sono scambiati quei beni e quei servizi che non erano disponibili nella loro
comunità. Ma oggi non stiamo più soddisfacendo il bisogno, bensì l'avidità. E così distruggiamo ciò che ci occorre per vivere».


Per tornare indietro, bastano la sensibilizzazione e l'attivismo del popolo, o servono interventi a un livello più alto?
«Penso che debba accadere in entrambi i modi. I boicottaggi organizzati dai consumatori hanno prodotto grandi cambiamenti, ma in certi casi hanno solo fatto trasferire l'impatto delle nostre attività in quei paesi dove la gente non ha il privilegio di scegliere cosa consumare, o il privilegio di votare in democrazia».

Lei è religiosa?
«Mio padre era un predicatore ambulante, e io sono stata cresciuta come cristiana. Poi, a quattordici anni, ho attraversato un percorso molto travagliato, che mi ha portato verso una vita spirituale molto profonda, che però non rientra nei confini di una religione. Penso che la vita sia sacra. E vivo la mia esistenza onorando questa sacralità. E prego tutti i giorni. Vedo grande verità e saggezza in tutte le religioni. Ma mi spaventa il potere che esse hanno nel controllare le persone, e nel chiudere loro gli occhi».


Se non altro, adesso i religiosi dicono al presidente Bush di "preservare il giardino dell'Eden".
«Si, è una cosa molto promettente. Bush è un presidente talmente cattivo, che persino le persone più religiose e meno coinvolte politicamente stanno prendendo posizioni molto decise. Parliamo di leader di chiese enormi. Uno di questi leader, che guida una congregazione di 20 mila persone in California, ha dichiarato che l'amministrazione Bush, in quanto cristiana, dovrebbe sottoscrivere il protocollo di Kyoto. E in conseguenza di queste posizioni, le affermazioni di Bush sul riscaldamento globale sono cambiate completamente. Non sono ancora cambiate le sue azioni, ma questo dovrà accadere presto. Non puoi dire certe cose a lungo, senza che la gente poi te ne chieda conto».

Come teme e come spera che il mondo sarà fra cinquanta anni? È una domanda che le fanno tutti, immagino.
«Si, ma è una domanda che amo, perché dimostra come tutti ci inganniamo quando pensiamo al futuro. Se dico alle persone che c'è speranza per il futuro, loro la useranno come scusa per non muovere le chiappe e fare qualcosa. E se invece dico che non c'è speranza, ugualmente sarà un motivo per non fare niente. Tendiamo a ingannarci pensando che qualcosa di inevitabile ci aspetti alla fine della strada. Ma quel qualcosa è creato oggi, dalle miriadi di scelte che facciamo a ogni istante».

Daniele Fanelli


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mercoledì 20 giugno 2007

SEEDSAVERS, Ovvero come salvare le sementi contadine - di Irene Fabbri del Serra

Report della conferenza di Alberto Olivucci al Vegfestival2007

Alberto Olivucci è il presidente dell'associazione "Civiltà Contadina", che si propone come scopo essenziale la salvaguardia della biodiversità rurale attraverso il recupero e la conservazioni delle antiche sementi agricole, e quindi delle molteplici varietà di cereali, legumi, ortaggi e frutta specifiche di ogni territorio. Nel corso della sua storia l'umanità ha usato a scopo alimentare più di 8000 varietà diverse di piante commestibili, quelle attualmente coltivate invece sono soltanto 150, e di queste solo 12 provvedono all'80% della produzione per uso umano! La causa di questo clamoroso impoverimento è da ascrivere alle multinazionali dell'agri-bio-tech, che spesso e volentieri sono anche le stesse che controllano tutta la filiera degli allevamenti intensivi, dalla produzione di concimi chimici e antiparassitari per i foraggi destinati agli animali allevati fino alla commercializzazione del "prodotto" finale. Queste mutinazionali hanno tutto l'interesse a far scomparire la biodiversità: creano e commercializzano delle sementi ibride, brevettate, che non possono essere ripiantate l'anno successivo, obbligando di fatto i coltivatori a acquistare ogni volta i semi da loro. Praticamente tutte le piante e i frutti che oggi mangiamo sono nati da sementi ibride appositamente progettate dalle multinazionali, e ciò spiega come mai l'aspetto e il sapore di questi cibi sia sempre più omogeneo e indistinguibile. Con l'introduzione degli OGM poi questo processo viene uteriormente incentivato e accelerato. Gli antichi semi che venivano coltivati localmente in piccole unità contadine fino a tempi dei nostri nonni stanno quindi scomparendo, dato che con lo sviluppo delle monoculture estensive più nessuno li pianta e li fa crescere. La perdita di questo patrimonio di biodiversità rappresenta un danno incommensurabile non solo per noi "consumatori" ma anche e soprattutto per la terra e per l'intero ecositema, poiché intervenendo nei naturali processi di rigenerazione delle piante si interrompe irreparabilmente la loro evoluzione adattiva. Ma l'aspetto più incredibile di questo sistema assurdo è che in base alla legislazione vigente su tutto il territorio della Comunità Europea è VIETATA ogni forma di circolazione di sementi non iscritte negli appositi registri! Questo significa che chi è in possesso di semi di varietà diverse da quelle ibride registrate dalle mutinazionali NON PUò a norma di legge cederli a nessuno, nemmeno a titolo gratuito, e può piantarli solo a condizione che il raccolto sia interamente destinato al consumo in proprio. è evidente come questa legislazione costituisca non soltanto un forte e deliberato ostacolo al mantenimento della biodiversità, ma anche un'inaccettabile violazione dei diritti civili e della libertà personale di tutti coloro che vorrebbero dedicarsi alla coltivazione delle varietà contadine tradizionali e di tutti coloro che vorrebbero acquistarne i prodotti. Per opporsi a questo sistema Civiltà Contadina propone una petizione da firmare on-line, che si può trovare, insieme a molte altre informazioni più circostanziate, sul suo sito di riferimento: www.civiltacontadina.it . Inoltre promuove la vendita diretta dei prodotti locali, coltivati con metodo biologico o biodinamico, attraverso la banca dati "Mappa del Cibo Locale", che si può consultare all'indirizzo http://www.biodiversita.info/modules/xdirectory/. Da un punto di vista vegan, bisogna dire che diverse fattorie presenti negli elenchi fanno anche allevamento di animali, ma ce ne sono anche alcune che si occupano esclusivamente di prodotti della terra. Tra queste, in Toscana:

AZIENDA AGRICOLA AVANZATI (TERRICCIOLA, PI)
di Francesco Avanzati
Terricciolese 10
TERRICCIOLA 56030, PI
Telefono: O587658335

Azienda agricola Angela Nannoni (Pontassieve, FI)
di Angela Nannoni
montefiesole, 36
Pontassieve 50065, FI
Cellulare: 3280027792
Fax: 055/8398986
Sito web: http://www.agriturismo-varinaldi.it

Azienda Agricola Cafaggio (Anghiari, AR)
di Leonardo Lotti
loc. Toppole 42
Anghiari 52031, AR
Telefono: 0575 749025
Cellulare: 338 8680113
Sito web: http://www.cafaggio.it

Podere Pretoia (S. Gimignano, SI)
di Mauro Traini
s. Benedetto
S. Gimignano 53037, SI
Telefono: 0577944972
Cellulare: 3497879735

Casa degli Olivi (Cetona, SI)
di Adrian Shelley
S.S. 321 est, 19
Cetona 53040, SI
Telefono:
Cellulare: 3470542419

Irene Fabbri Del Serra

lunedì 11 giugno 2007

Carne, veleno per l'anima - di Kumar

Cibarsi di carne (o pesce) è assolutamente incompatibile con l'energia di Amore a cui è necessario connettersi per rendere bella la nostra vita. Cos'è una vita bella, se non una vita piena d'amore? La bellezza però non può certo convivere con la violenza.

Dietro ogni piatto a base di carne, o di pesce, vi sono indicibili crudeltà tra cui, ma non solo, l'uccisione dell'animale. Tantissimi orrori. Tantissima violenza. E' importante ricordarlo, è importantissimo essere consapevoli di ciò che mangiamo. Non possiamo pensare di essere in sintonia con l'energia di Amore, con noi stessi e con il mondo che ci circonda se per pigrizia o superficialità ci permettiamo di accettare simili brutture.

Alimentarsi in modo vegetariano opera una profonda trasformazione energetica nel nostro corpo fisico, una trasformazione molto potente che coinvolge anche i nostri corpi più sottili. Alimentarsi in modo vegetariano equivale a darci nutrimento, in modo consapevole, con amore e rispetto verso noi stessi e verso i nostri amici e fratelli animali. Alimentarsi in modo vegetariano implica inoltre l'arrestare una catena di indicibili sofferenze, violenze ed orrori che solo la parola "macellazione" basterebbe da sola ad evocare.

L'energia di Amore è sempre presente e disponibile dentro di noi, ma a volte occorre un piccolo sforzo per far sì che il contatto avvenga, e per far sì che essa possa espandersi dentro e fuori di noi. Alimentarci con i corpi dei nostri amici e fratelli animali significa porre a questo processo un ostacolo molto grande. Le vittime sono gli animali, ma siamo sopratutto noi stessi, che rimaniamo distaccati dalla nostra Fonte, che è Amore.

Dell'amore si parla così tanto, tutti lo invocano e lo desiderano. Esso è a disposizione dentro di noi, a disposizione di chiunque faccia il piccolo sforzo di cercarlo. Per entrare in contatto con la sua/nostra energia esistono tantissimi modi (ad esempio, tecniche di meditazione), e alimentarsi in modo vegetariano aiuta profondamente in tale direzione. Al contrario, ostinarsi a mangiare carne, o pesce, è davvero poco proponibile per chi desidera proseguire il proprio cammino di Luce, Amore ed Evoluzione Spirituale.

Vivi una vita bella!

Kumar

venerdì 1 giugno 2007

Livorno, Festa di primavera 2007 - di Ilaria Nannetti

Doveva essere l'anno del rinnovamento per la "Festa di Primavera" consueto evento livornese che coivolge ogni anno adulti e soprattutto bambini di ogni età, in occasione di Santa Giulia, patrona cittadina. Novità, in effetti, ce ne sono state, ma decisamente amare: e' stata assai deludente l'organizzazione della festa da parte dei nuovi gestori dell'evento, che hanno puntato tutto sul commerciale, accogliendo un modestissimo numero di associazioni no profit e di volontariato rispetto agli anni passati. Le attrazioni per i più piccini, cui storicamente è dedicata la festa, non sono del tutto mancate, ma l'accostamento tra realtà così antitetiche come OIPA, Movimento Nonviolento e Commercio Equo e Solidale con Mc Donald è stata una scelta incomprensibile e veramente diseducativa. Questo per non parlare dell'entrata, assolutamente e giustamente libera gli anni scorsi, a pagamento quest'anno (1 euro d'ingresso).
Le associazioni di volontariato hanno pertanto risentito negativamente di questi cambiamenti di rotta, che hanno comportato un ridotto afflusso alla festa e di conseguenza minori occasioni di farsi conoscere sul territorio e di raccogliere fondi. Il messaggio lanciato da Mc Donald, da tutti i punti di vista: ambientale, consumistico, etico, salutista, ecc... bombardava i passanti, esattamente nel punto focale dell'incrocio delle due strade d'accesso, fatalmente in aperta contraddizione con le piccole grandi realtà associazioniste, che hanno tentato in tutti i modi, con volantinaggi mirati e messaggi eticamente "corretti" di boicottare il fast food invogliando i passanti ad interessarsi ad uno stile di vita più consapevole, in armonia con l'ambiente e con la natura stessa dell'essere umano.
Il Movimento Nonviolento, in collaborazione con L'Associazione Don Nesi Corea e con il Comitato contro il Rigassificatore, uniti da comuni intenti educativi ed informativi, hanno fatto inaugurato la loro presenza alla Festa proprio quest'anno, proponendo per i più piccoli attività di manipolazione e pittura e, per gli adulti, materiale informativo sui più recenti eventi e le iniziative prossime future.
L'OIPA italia, per la terza volta partecipe all'evento, ha notato una positiva crescita dell'interesse della popolazione al problema alimentare considerato dal punto di vista della scelta etica e dell'antispecismo. Più di una persona ha dicharato di aver già intrapreso la scelta vegetariana, tra cui, significativamente, una madre e una bambina di età inferiore ai due anni. Non credo che si tratti di concidenze positive fortuite ma di una progressiva, anche se lenta apertura mentale della popolazione, che ci restituisce una speranza e una base dalla quale partire.

Ilaria Nannetti

giovedì 31 maggio 2007

Diritti animali... tra filosofia e azione di Lorenzo

Chi affronta il tema dei diritti animali in un’ottica di confronto tra le principali posizioni storicamente espresse, impara ben presto a conoscerne i due principali filoni: quello derivante dal pensiero utilitaristico di Bentham e quello che potrebbe ricondursi al concetto di imperativo categorico di Kant.
Perché scomodare tali nomi, che credevamo rilegati per sempre nei polverosi libri del liceo, per affrontare un argomento così apparentemente moderno come quello dell’antispecismo?
In anni recenti, l’australiano Peter Singer con il suo libro “Animal Liberation” ha affrontato la questione del rapporto tra uomini e animali prescindendo da ogni considerazione sui "diritti" di questi ultimi e rifacendosi dichiaratamente alla corrente utilitaristica: l’azione dell’uomo deve essere volta all’ottenimento della maggior soddisfazione possibile di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli degli animali (o, per dirla con Singer, degli “animali non umani”). Interessi che sussistono in considerazione della capacità di tutti gli esseri senzienti di provare dolore. Fondamentalmente questo approccio condanna lo specismo insito nell’etica fino a quel momento accettata: infatti si debbono considerare gli interessi non solo della specie umana, ma anche degli altri animali che, nella maggior parte dei casi, sono più simili alla specie cui apparteniamo più di quanto comunemente si creda.
L’approccio concorrente è quello esposto da Tom Regan nella sua monumentale opera “The case for animal rights”: i diritti animali sono assoluti ed incondizionati (concetto kantiano, ma che fino ad ora era stato riferito solo all’uomo), al di là di ogni considerazione in merito all’utilità collettiva. In un certo senso è una posizione più estrema di quella di Singer o, se vogliamo, ne potrebbe rappresentare l’interpretazione più radicale.
Entrambi gli approcci convergono nel condannare ogni forma di sfruttamento che l’uomo compie sugli animali: allevamento, vivisezione, caccia. In ogni caso è stata l’opera di Singer, forse perché più accessibile e divulgativa, ad aver aperto la strada ai vari movimenti degli attivisti dei diritti degli animali.
Un’annotazione di non poco conto: sia Singer che Regan seguono un’alimentazione vegan. Mi piace pensare che la coerenza sia ancora un valore.
Lorenzo

"Ma cosa mangi, erba?" - Sopravvivenza vegan in un mondo carnivoro - di Lorenzo

“Ma cosa mangi, erba?”. E’ la domanda che immancabilmente ogni vegan, a tavola, sente rivolgersi dai commensali dopo aver rivelato loro la propria scelta alimentare. La domanda è invariabilmente preceduta, nell’ordine, da questo tragicomica sequenza di domande:
“Sei Veg… che? e che cos’è?” - (si comincia bene…);
“Ok, non mangi la carne, ma il pesce lo mangi?” - (il dualismo carne-pesce emerge sempre nella mente dell’onnivoro, sembra che proprio non riesca ad andare oltre);
“Cosa? Non mangi nemmeno latte, formaggio, uova?” - (con il terrore negli occhi). Segue, pronunciata con sorriso ironico di commiserazione, la fatidica battuta sull’erba. Mah!
Quando, nel 2006, ho iniziato a seguire un’alimentazione di tipo vegano, mi sono quasi subito reso conto di due cose: la prima, che sarebbe stato entusiasmante cambiare in modo radicale le mie abitudini alimentari; la seconda, che sarebbe stato frustrante provare a far capire agli “altri” le ragioni della mia scelta.
Chi condivide con me lo stile di vita vegan sa a cosa mi riferisco: trovare informazioni nutrizionali e ricette di prodotti di origine esclusivamente vegetale, nell’epoca dell’informazione e di internet, è alla portata di tutti; i prodotti stessi, poi, sono reperibili comunemente nei supermercati e non si discostano, nella gran parte dei casi, da quelli di cui l’uomo si è sempre cibato. Tutto semplice allora, si direbbe. Tutt’altro.
Chi è vegan sa che, nel corso della giornata, dovrà comunque sempre rendere conto agli altri della propria scelta. La società non perdona la scelta vegan. Fondamentalmente, la teme. La condanna e la osteggia, prima ancora di conoscerla. Non ci si illuda che possa capirla, salvo rare eccezioni.
Il primo ostacolo: i familiari. Con loro si condividono, normalmente, i pasti. Provo invidia per le famiglie in cui tutti i componenti abbracciano e condividono l’alimentazione vegan. Più frequenti sono i casi in cui le diverse scelte alimentari in famiglia diventano motivo di incomprensione e di scontro. Spesso anche di scontro generazionale. Il classico esempio è il figlio o la figlia aspirante vegan che rivendica in famiglia le ragioni della propria scelta alimentare. Ben difficilmente i genitori, legati ad una cultura tradizionale che vede nel consumo di carne, pesce, latte ed uova un elemento imprescindibile per ottenere benessere e salute, sono disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni e a permettere che il figlio compia quello che ai loro occhi appare come un grave errore alimentare.
Supponiamo pure che viviate da soli. Oppure che la vostra sia una felice e sana famiglia vegan. Oppure, ancora, che siate riusciti ad adattarvi in una famiglia non vegan, senza scendere troppo a compromessi, facendo accettare la vostra “diversità”. Ci saranno comunque innumerevoli altri ostacoli nella vostra giornata.
Siete costretti a mangiare fuori casa nella pausa-pranzo lavorativa? Diventa indispensabile organizzarsi la sera precedente per portarsi il pranzo da casa. Le altre soluzioni sono difficilmente praticabili. Soprattutto, preparatevi a sentirvi esclusi e derisi dai colleghi più sadici, che vi descriveranno con dovizia di particolari il gusto della bistecca rigorosamente al sangue che hanno mangiato.
Anche per gli spuntini fuori pasto diventa indispensabile un certo grado di autonomia. Se fortunatamente il vegan è abbastanza insensibile alle tentazioni del marketing alimentare proposto dai vari bar, è pur vero che bisogna essere pronti a fronteggiare gli attacchi di fame improvvisa. Abituatevi a portare con voi una barretta di semi di sesamo. Non sperate di trovare aperto un fornaio che vi venda una sana e calda focaccia con olio di oliva. Raffinatezze che ormai appartengono ad altre epoche!
Passiamo alle cene al ristorante con amici o colleghi. Affinché non si trasformino in un incubo, e non tremiate di fronte ogni portata che vi serviranno nel dubbio che possa contenere derivati animali, è consigliabilissimo ricorrere all’espediente più classico e subdolo che il vegan conosca: quello di far presente al cameriere, e soprattutto al proprietario, la propria grave allergia a tutti i derivati animali. Elencateli tutti, per carità: non sapete quanta ignoranza incontrerete nei vostri interlocutori che pure lavorano nel settore della ristorazione. E specificate il forte rischio per la vostra incolumità nel caso in cui accidentalmente doveste ingerire una piccola quantità di prodotti animali. Funziona. Garantito.
Causa di imbarazzo ed incomprensioni sono anche gli inviti a casa di amici. Con ogni probabilità vi troverete costretti a rifiutare buona parte di quanto vi verrà offerto in pasto. Informatevi su cosa esattamente vi viene offerto. Chiedete con insistenza e con domande precise: è incredibile constatare quanti ingredienti non vengono elencati in un primo momento. “Ma come? Nemmeno quello mangi?”: quante volte lo ascoltiamo!
Questa società non è fatta a misura di un vegan. E’ una società, invece, che incoraggia ed invita ad un consumo smodato di prodotti di origine animale. Lo fa per motivazioni culturali e storiche. Ma lo fa soprattutto per ragioni di tipo economico e commerciale.
Il business che soggiace allo sfruttamento animale è enormemente superiore a quello derivante dalla produzione agricola strettamente destinata all’alimentazione umana. Si precisa “strettamente destinata alla alimentazione umana” perché, qualora non ci abbiate mai riflettuto, è bene considerare che una porzione considerevole della superficie coltivabile del pianeta è destinato a coltivazioni finalizzate a produrre mangime per animali. Animali che saranno allevati, reclusi, ingrassati, torturati e macellati. Il tutto con uno spreco enorme di risorse per il pianeta. Con la stessa quantità di terra che serve, attraverso la produzione di mangime per il bestiame, a produrre un chilo di carne, sarebbe possibile ottenere una quantità circa dieci volte superiore di cereali o legumi destinabili direttamente all’alimentazione umana. Ancora più allarmante è la considerazione in merito all’enorme spreco di acqua imputabile all’allevamento. Parlo di business dello sfruttamento animale in senso molto lato. Vi è la grande ricchezza legata all’allevamento, alle cure veterinarie, al trasporto degli animali vivi, alla macellazione, al confezionamento della carne, alla vendita della stessa. Per non parlare, inutile nasconderlo, del business farmaceutico e delle cure mediche per le patologie che maggiormente affligono la moderna società occidentale, prime fra tutte le malattie cardiovascolari e i tumori, che come è ormai noto sono strettamente collegate al consumo di carne e grassi animali.
Lorenzo

martedì 1 maggio 2007

Premessa - di Eva Melodia

Siamo forse giunti in un’era di dati finalmente contabili. Un epoca in cui finalmente possiamo fare due somme e rapportarci ai risultati ottenuti in millenni di attività umana sul pianeta terra.
Grazie ad un sistema mediatico patetico e allarmista, incapace di fornire una visione semplice ed attendibile della realtà che ci circonda, è l’era del panico di fronte al conto che dovremo saldare.
Il rischio è però, che come quasi sempre accade, la nostra attenzione si rivolga semplicemente al tentativo di rimediare agli effetti devastanti in atto, piuttosto che rimuoverne le cause scatenanti.
Qui deve quindi entrare in gioco la volotà personale, l’intuito, la determinazione di tutti coloro che non credono più al buon governo e vogliono capire veramente cosa stia accadendo, perchè, stando a quanto ci dicono gli organi di informazione, antenne di trasmissione mediatica del potere, si tratta appunto solo di trovare soluzioni, in fretta, e di continuare per la nostra strada, mentre un numero sempre maggiore di persone ha il sentore da tempo che non sia affatto così semplice.
Negli ultimi anni, a fronte del duro impatto con la realtà, (quello che ci dice da anni che le foreste amazzoniche stanno scomparendo, che la siccità scatenerà grandi apocalissi, che immensi territori preziosi per l’umanità come l’Iraq) saranno non fruibili per secoli a causa dell’inquinamento post-bellico, lo scenario di lotte tra gli uomini per il controllo dell’acqua e delle risorse energetiche, etc... etc...), sono nate diverse correnti di pensiero, cioè analisi logiche di questi problemi che mirano a spiegarne ed a rimuoverne le cause.
Tra queste correnti, spicca l’antispecismo.
Erroneamente molti pensano che questa “filosofia”, sia una base teorica estremizzata inerente l’animalismo e con la quale gli animalisti motivano le loro scelte ideologiche, ma appunto non è così.
Basta usare un po’ di logica per comprendere che l’antispecismo, idea che nega una diversa “valorizzazione” di una specie rispetto ad un’altra, comporta (sempre "per logica") altre considerazioni a catena che impattano su ogni aspetto della vita di un essere umano, tanto da divenire vera e propria filosofia di vita, attraveso la quale misurarsi e rapportarsi a tutto ciò che ci circonda.
Grazie all’antispecismo, l’uomo viene deallocato dalla sua secolare posizione di regnante sulle altre forme di vita e se perde il suo dominio allora viene meno anche il dominio sull’ambiente perchè lo deve rispettare in quanto patrimonio da condividere.
Il benessere dell’uomo diventa finalmente parte integrante del benessere del suo habitat e viceversa e la relazione con altre specie animali, il termometro con cui misurare la capacità di un uomo di dare valore alla propria esistenza e a quella degli “altri”, ambiente e animali compresi.
Se si accetta la negazione della specie umana come legittimo e sensato dominante su altre specie viventi, tanto più la si accetta quando si tratta di conflitti tra esseri umani. Nessun uomo ha diritto di dominio su altri.
Se si accetta la suddetta negazione, si comprende che l’uomo fa parte di un equilibrio da proteggere, dove non c’è specie che possa fare da parassita ad un’altra, e dove essere “umani” ha l’unico vantaggio di poter comprendere la meraviglia di questo equilibrio potenzialmente perfetto.
E ancora, si rifiuta all’origine ogni forma di inquinamento e sfruttamento della terra, dell’acqua, dell’aria, degli uomini, dei bambini, di cani, gatti, topi, insetti, tigri, regioni, terre di nessuno, o altri pianeti. Ma sopratutto si rifiuta ogni forma di violenza e sopruso.
Questa corrente di pensiero fatica ad emergere perchè appunto percepita come una “motivazione animalista”.
A noi il compito di farla uscire da questo bozzolo, questa crisalide, perchè possa volare ovonque in questo nuovo millennio e apportare grandi cambiamenti. Perchè un altro uomo è possibile.
A noi l’arduo compito di mettere in relazione i fenomeni quotidiani con la coerenza e la logica antispecista.
A noi il compito di dimostrarne la validità, confutandone l’aspetto “emotivo” e dogmatico, e rendendone visibile e fruibile per i più, l’innegabilità e il fondamento, usando le parole e la logica che sono il nostro unico grande mezzo di rivoluzione.

Eva Melodia

Animalismo / Antispecismo: Una questione politica - Paolo Rimoldi

Come è risaputo, gli animalisti sono nervosi, litigiosi, impulsivi, istintivi e spesso non solo si discute animatamente sul modo di vedere e di vivere l’animalismo, ma il confronto diventa anche motivo di fratture e litigi che oltre ad essere dolorose, sono nocive per il movimento e quindi per gli animali stessi, che non potendosi difendere da soli dalla tirannia umana, hanno bisogno di noi e di un movimento forte e compatto, unito se non altro sulle cose fondamentali e sulle basi elementari, esattamente il contrario di quello che spesso accade.

A mio modo di vedere, questo continuo litigare e dividersi, ha varie cause:

1) Motivi politici, o presunti tali.

2) Frustrazioni personali a volte dovute alle inevitabili sconfitte animaliste.

3) Incapacità di dialogare e confrontarsi serenamente.

4) Presunzione di essere un gradino più in alto di altri.

5) Mancanza di un obbiettivo preciso.

6) Mancanza di concentrazione sull’obbiettivo da raggiungere.

7) Mancanza di lealtà verso gli altri membri del movimento.

8) Superficialità nel dare giudizi, spesso affrettati o su cose riportate da altri.

9) Invidie o gelosie personali.

10) Manie di protagonismo.

Ognuno interpreta la battaglia animalista a modo suo e a proprio uso e consumo, filtrata dalle proprie ideologie, dalle proprie convinzioni o “appartenenza politica“, dalle proprie esperienze personali, ed altro. Questo è normale ed accade in tutte le attività umane, solo che per quanto riguarda l’animalismo, non essendoci definizioni, limiti, progetti comuni, ognuno si sente “in diritto” di pretendere che gli altri animalisti si conformino alle proprie convinzioni personali.

Questo secondo me, non solo è sbagliato, ma anche pericoloso per gli animali, i quali non hanno bisogno che gli animalisti siano politicamente uniformati o di essere schierati in un unico partito, ma di gente motivata e pronta a mettere impegno, passione e coraggio, per chiedere ed ottenere per gli altri animali non umani quei diritti minimi ed essenziali che possano col tempo portare alla liberazione dalla schiavitù e dalla tirannia dei nostri simili.

Secondo me non è importante l’appartenenza a questa o quella associazione, come la militanza o meno in un qualsivoglia partito politico, ma la condivisione degli stessi ideali animalisti ed obbiettivi comuni. Su queste basi, ci si può unire anche solo di volta in volta per raggiungere un preciso obbiettivo, senza per questo dover essere tutti amici o andare a mangiare tutti assieme.

Al meeting di Bologna dello scorso settembre ad una mia domanda, in cui chiedevo che mi venisse data una volta per tutte una definizione precisa di “animalismo” da parte di quello che si autodefinisce o che tutti riconoscono come il “movimento radicale“, è uscito di tutto, (evidente la confusione) ma poi alla fine si è optato per questa tesi: l’animalismo è un termine generico che racchiude tutti gli amanti di animali, anche solo di alcune specie di animali. Di conseguenza animalista può essere anche chi pur non essendo antispecista si occupa in qualche modo di animali, tipo canari o gattari che vanno in canile o a dar da mangiare ai gatti con la pelliccia, oppure che mangiano altri animali senza sensi di colpa. Tenendo buona questa definizione, la battaglia che abbiamo fatto noi del collettivo contro quelle associazioni che si definiscono animaliste, ma poi fanno le loro feste offrendo cadaveri di animali, sarebbe stato tutto un errore: loro sarebbero comunque animalisti, anche se non antispecisti e quindi dovremmo chiedere scusa per il danno d’immagine arrecato loro e lasciare che continuino a cucinare impunemente le loro salamelle. E’ chiaro che non mi trovo assolutamente d’accordo con questo modo di pensare. Anzi penso che sia il modo peggiore per far passare il nostro messaggio. Per gli aguzzini è il massimo, sapere che c’è in circolazione “bravi animalisti”, quelli moderati, che li lisciano vivere in pace senza rompere troppo le scatole: che si occupino di cani e gatti abbandonati e li lascino continuare a macellare, cacciare, torturate in santa pace.

Questo, non significa affatto che non si deve avere un dialogo costruttivo con chi ama solo cani o gatti, ma che anzi si deve continuare a seminare in queste persone il seme del vero animalismo, cioè l’antispecismo. Anche perché chi ama anche un solo tipo di animale, ha probabilmente una sensibilità giusta per poter capire e fare il salto giusto.

Ma tornando al meeting di Bologna, il termine da usare per definire un vero animalista è “antispecista” e dato che l’antispecismo è l’altra faccia dell’antirazzismo, chi difende i diritti animali, deve difendere i diritti degli umani e quindi non c’è liberazione animale senza la liberazione umana, o meglio di quegli umani oppressi e più sfortunati. Poi non si deve dimenticare la liberazione della terra, naturalmente la liberazione delle donne ecc...

Tutto questo è giusto, sia ben chiaro! Una visione olistica della sofferenza dei più deboli e degli oppressi della terra e una difesa dell’ambiente naturale è positivo e corrisponde alla mia visione della vita. Però non sono più d’accordo con questa definizione quando mi si dice che l’animalismo è altra cosa, e questo perché (io penso) non si riesce a trovare altra giustificazione per escludere chi è animalista vero, antispecista e vegan, ma non si ritrova in tutto e per tutto in una visione politica generale preconfezionata per chi voglia vivere un animalismo radicale. Per me l’animalismo è anche antispecismo ed è ovvio che un antispecista è anche antirazzista, ed è anche ovvio che un gattaro o un canaro non è necessariamente animalista. Però non credo che per forza di cose un animalista si debba occupare necessariamente degli umani oppressi o meno fortunati. Per me è sufficiente che si occupi degli altri animali, che sono e restano i più deboli ed oppressi in assoluto. Agli umani, anche ai più deboli, anche a quelli dimenticati, che muoiono di fame, sotto i bombardamenti, ecc.. anche a loro, viene comunque, sempre riconosciuto il diritto alla vita, a non essere torturati, mangiati, almeno in teoria, anche se poi in pratica la barbarie umana colpisce sempre i più deboli e la palestra spesso avviene sugli altri animali. Per rendersene conto non si deve andare in Africa o in Palestina, basta guardare la notte vicino a casa nostra, dove le moderne schiave, le prostitute minorenni, sono costrette a battere per ore ed ore al freddo, sottoposte ad ogni tipo di minaccia e punizione se si rifiutano di vendere il loro corpo per arricchire i loro aguzzini. Chi interviene? Chi fa qualcosa? L’indifferenza è totale, come l’indifferenza è totale verso gli animali torturati dagli scienziati, gli animali allevati per pelliccia o per scopi alimentari. Finché si continuerà a macellare animali, a mangiarli, vestirsi con la loro pelle, le guerre e le barbarie sugli altri esseri umani non avranno fine.

E’ quindi chiaro che se esiste un animalista che va in giro a picchiare estracomunitari, questo non è più mio amico, ma ci vogliono le prove, non ci si può basare sempre sul sentito dire, su fatti riportati. Fino a prova contraria chi è animalista/antispecista è potenzialmente una persona sensibile anche verso la sofferenza di altri esseri umani. Questa è la mia convinzione, e spero vivamente che non sia la mia ingenua illusione.

Sono istintivamente e quindi profondamente contro ogni sopruso, sfruttamento, sia di altri esseri umani che di altri animali. La guerra mi fa orrore, la tortura ancora di più. Sono contro ogni pena di morte e vedendo Saddam in TV condannato alla pena per impiccagione provo pena per lui, anche se ha commesso tutte le atrocità di questo mondo non sopporto che ora qualcuno decida di mettergli una corda al collo e farlo soffocare a morte. Però se un altro animalista la pensa in modo diverso non lo considero meno animalista solo per questo, non pretendo che ora tutti quelli che leggono la devono pensare come me solo perché io la penso in questo modo, o peggio ancora perché il mio partito il mio gruppo politico la pensa in questo modo. Quello che vedo e che mi rattrista è più delle volte un bieco tentativo di politicizzare l’animalismo, ciò è molto pericoloso perché pretendere che l’animalismo sia parte integrante di un partito o schieramento politico, significa ridurne l’azione e rendere la battaglia animalista a uno dei tanti obbiettivi di quel partito, di solito l’ultimo in fatto di importanza e quindi mai prioritario. Tutto ciò non porterà mai a nulla di concreto per gli animali, ma solo molte promesse per attirare i voti degli animalisti illusi. Quello su cui destra e sinistra sono perfettamente d’accordo è continuare a sfruttare e torturare i nostri fratelli animali. Non mi pare di aver ancora visto un partito Italiano, sposare le nostre idee animalista/antispeciste. Quando vedrò nei programmi di qualche partito: l’abolizione della vivisezione, l’abolizione dei circhi e zoo e spettacoli con animali, l’abolizione della caccia e pesca, l’abolizione di qualsiasi allevamento e importazione di animali per consumo umano, la chiusura dei macelli, ecc.. allora questo sarà il mio partito, allora e solo allora ci sarà un gruppo politico che mi rappresenta e che voterò con convinzione. Fino ad allora non mi si venga a parlare di “voto animalista“, per lo meno con l’animalismo come lo intendo io e cioè quello “veramente radicale“.

Poi se qualcuno di noi si sente più vicino ad un gruppo politico o milita in qualche partito politico e vuole portare le nostre istanze all’interno di quel partito, ben venga, tutto fa brodo… anche se il brodo non è vegetale, perché le feste di qualsiasi partito mi pare siano ancor piene di salamelle e costine di maiale alla griglia. E questo è poco animalista e niente antispecista, anche se ci si riempie la bocca di bei discorsi sulla non violenza e di lotte civili per i più deboli e oppressi.

Per come la vedo io, il movimento radicale, deve crescere, avere peso politico, poter influenzare dal basso i nostri politici, senza colore, senza bandiere, se non quella dell’animalismo, quello vero, quello antispecista che poi è l’unico animalismo. E’ ancora un soggetto nuovo, sconosciuto, fuori dalle regole sociali, spesso contro tutti e tutto, che non trova nessuna collocazione in nessun partito politico, in nessuna religione monoteista, in nessuna società umana che fonda ogni cultura nell’antropocentrismo. Il movimento animalista per essere efficace dovrebbe far tremare l’ordinamento sociale andando contro tutto e tutti, perché tutto o quasi, si basa e vive sullo sfruttamento animale.

Fino a quando il movimento non sarà forte a sufficienza, mi accontento di lottare fuori dai partiti, fuori dalla politica, o meglio facendo scelte politiche che vadano in direzione della liberazione animale, unico mio obbiettivo finale.

Naturalmente, dato che mi ritengo un democratico, non me la prendo con chi la pensa in modo diverso da me e sono disponibile al dialogo, specie se costruttivo.

Paolo XL

Regole per la pubblicazione - di Eva Melodia

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martedì 6 febbraio 2007

Osho antispecista? - di Kumar

Chi è Osho.

E’ per me un compito estremamente arduo accingermi a parlare di Osho, ed ancor più con l’intento di accostarlo in qualche modo al movimento antispecista. Osho non è una religione, né una filosofia, né una corrente di pensiero. Essere discepolo di Osho non equivale ad appartenere ad alcun tipo seppur vago di organizzazione. Si tratta semplicemente di un rapporto personale tra Maestro e discepolo.
Osho per me è il salto nel vuoto, dalla sfera razionale a quella mistica, dalle discussioni al silenzio, dall’umano al divino.
Ma procediamo con ordine.
Osho innanzitutto è stato una persona in carne ed ossa nata in India nel 1931. Un indiano, quindi, che all’età di 21 anni raggiunge l’Illuminazione, ed alla fine degli anni Cinquanta inizia a tenere conferenze a platee anche di centomila persone. E’ professore di filosofia, ma dall’inizio degli anni Sessanta comincia a tenere campi di meditazione. E ad attrarre un numero sempre maggiore di persone. Dalle folle che ascoltano i suoi discorsi emergono i primi discepoli. E moltissimi iniziano ad arrivare dall’occidente.
Intorno a Osho sorge un grande “Ashram”, o comunità spirituale, a Puna (India). Attraverso molte peripezie questo Ashram esiste ancora, a quasi vent’anni dalla sua morte.
Osho ha parlato moltissimo, e i suoi discorsi sono stati registrati, trascritti e pubblicati. Non ha lasciato dogmi, comandamenti o precetti scritti. Più che con le parole, ha comunicato ai suoi discepoli attraverso l’energia ed il silenzio. Come definirlo? Un Maestro Spirituale? Un Buddha? Oppure un guru, come usavano dire di lui i media quando era all’attenzione dell’opinione pubblica (il “Guru del sesso”, o anche il “Guru delle Rolls-Royce”).
Io sono un “sannyasin”, un cosidetto discepolo. Non posso che offrire la mia visione parzialissima e personalissima. Troppo coinvolto, troppo in amore con colui che per me non è stata una persona. Osho per me è stato un avvenimento, un evento cosmico che si è manifestato sulla Terra. Ha avuto un suo inizio, una durata e una fine, come è nel corso naturale delle cose.
La sua energia è stata potente. A quasi vent’anni dalla sua scomparsa è ancora possibile immergersi nella fragranza della sua scia.
Il rapporto tra Maestro e discepolo è un fenomeno complesso, ma per semplificare dirò che per me è una storia d’amore, “la” storia d’amore che ha trasformato e riempito di magnificenza la mia vita.


Osho e il vegetarismo.

Consapevolezza, attenzione, meditazione. Questi termini possono essere considerati sinonimi, e sono il fulcro del messaggio di Osho. Parlando di lui non ha senso riferirsi ad una morale, a un’etica o a una filosofia. La cosidetta ragione o razionalità danno vita al sapere intellettuale, ma per accedere alla conoscenza di cui parlano i Maestri occorre un salto quantico.
Un atto virtuoso compiuto inconsapevolmente non è realmente virtuoso. E non è possibile commettere un atto non virtuoso se l’agire proviene da uno spazio di meditazione, consapevolezza, attenzione.
La stragrande maggioranza delle persone vive perennemente nell’inconsapevolezza. Il Maestro è semplicemente colui che è consapevole, ed irradia all’esterno questa energia, questa fragranza che può essere solo sentita, non compresa dalla mente.
Da questo presupposto si possono dedurre molte cose. La consapevolezza deve essere presente in ogni atto della vita, in ogni particolare. Ad esempio nell’alimentazione. Come può una persona consapevole cibarsi di un animale ucciso, quando sa di avere a disposizione abbondanza di meraviglioso cibo vegetariano? E’ semplicemente impossibile. E non si tratta di una scelta etica, di un’obbedienza ad un precetto spirituale, e neppure del risultato di un ragionamento. Una persona consapevole prova un naturale ed immediato disgusto alla vista di un piatto di carne o di pesce. Vede la cosa per quella che è: un essere vivente è stato ucciso, il suo cadavere sta per essere mangiato. E non prova disgusto perché uccidere è male. No. Prova disgusto perché si imbatte in qualcosa di disgustoso, e come uno specchio lo riflette, semplicemente.
Osho era vegetariano, e non ha mai permesso che cibo non vegetariano fosse cucinato all’interno del suo Ashram. Tuttavia non ha mai comandato alcunchè ai suoi sannyasin. Non ha mai detto: non mangiate carne. Oppure: siate vegetariani. Ha sempre e solo incitato ad avere sempre più consapevolezza in qualsiasi momento della vita quotidiana. Quindi mangia pure la carne, ma mentre mangi sii consapevole. Il paradosso è: se la persona è davvero consapevole, la carne non la mangerà.

"Puoi mangiare carne e meditare. Puoi mangiare carne ed amare, ciò non ha nulla a che fare nemmeno con l'amore. Ma una cosa mostrerai di te: che sei molto immaturo, molto primitivo; che sei ignorante, incivile, e non hai alcun senso di come la vita dovrebbe essere."
Osho, The Diamond Sutra - Discorso n. 6.


Osho e l’antispecismo.

Osho richiama costantemente i suoi discepoli alla consapevolezza: dei propri pensieri, dei propri sentimenti ed emozioni, del corpo; e delle relazioni con le altre persone e con l’ambiente che ci circonda.
Una persona consapevole è in armonia, e vive in un rapporto di empatia profonda con la Natura.
Tutto è Uno, ogni cosa è sacra, ma non perché una Bibbia o un Corano la definiscano tale.
La persona consapevole riconosce naturalmente la presenza del divino, del sacro, del bello (del Tao, Dhamma, Logos, Dio, si possono usare un’infinità di termini diversi) in ogni essere umano, in ogni animale, in ogni pianta, in ogni sasso.
Da questo presupposto mi sembra possibile accostare Osho all’antispecismo.
L’idea che l’uomo possa in qualche modo ritenersi superiore alle altre specie è frutto della stupidità dell’ego. Non provare naturalmente rispetto, non sentirsi in comunione con gli altri esseri viventi significa solo non essere consapevoli. Arroganza, violenza, avidità, indicano che la persona è assente, profondamente addormentata, vive come in un sogno.
L’antispecista per me è semplicemente colui che sente rispetto per tutto ciò che lo circonda. E mette in pratica questo suo sentire nella propria vita quotidiana. Nell’alimentarsi, sceglierà quei cibi che non implichino lo sfruttamento e l’uccisione degli animali. Nel vestirsi, eviterà la pelle, le pellicce e quanto altro. Se dovrà acquistare un prodotto, gli interesserà sapere se è stato prodotto sfruttando o danneggiando degli esseri viventi. Nell’usarlo, si preoccuperà di quanto possa essere nocivo per l’ambiente. Se vorrà divertirsi, non gli verrà proprio in mente di andare al circo o allo zoo, a caccia o a pesca. E così via.
Consapevolezza, attenzione, cura. Rispetto assoluto per la vita.
Nessuno è superiore o inferiore. Semmai, c’è chi è sveglio e chi non lo è, ma questo non è un giudizio, ed essere addormentati non è una colpa ma una libera scelta.
Ed è l’uomo profondamente addormentato che combatte mille e una guerra, che sfrutta, uccide, viviseziona, depaupera, inquina, distrugge.
Come sannyasin, come discepolo e devoto di Osho, non posso che riconoscere nei valori antispecisti il richiamo alla consapevolezza di tutti i Maestri Illuminati. In fondo, si tratta di valori molto semplici, persino ovvii, banali: il rispetto per gli esseri viventi, l’amore e la cura per l’ambiente, il vivere in armonia ed empatia con la Natura. Eppure persino molti ricercatori spirituali non sono vegetariani, moltissime brave persone portano i figli allo zoo o a pescare, c’è un disinteresse, una violenza, un disprezzo costante e continuo verso la vita. Per questo c’è bisogno delle parole dei Maestri, dell’impegno degli antispecisti, della presa in carico da parte di ognuno di noi della responsabilità di essere sempre più svegli, attenti, consapevoli.
Semplici Esseri Umani.


"Ogni volta devo dire sempre la stessa cosa. Ogni giorno, non dico una cosa che sia nuova.
La verità è molto semplice, e può essere detta in poche frasi. Ma se voi non ascoltate, dovrò dirla di nuovo. E poi di nuovo ancora."
Osho, Philosophia Perennis, vol. I – discorso n. 7

Massimo Kumar Carola