lunedì 1 ottobre 2007

Vegetarianesimo e nonviolenza - di Irene Fabbri Del Serra

Report della conferenza della prof. Luisella Battaglia al Vegfestival2007

Luisella Battaglia, nata a Genova nel 1946, è professoressa associata di Filosofia Morale presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, nonché direttrice dell’Istituto Italiano di Bioetica. Tra le sue opere: La questione dei diritti degli animali (Torino 1989) e Etica e diritti degli animali (Laterza. U.L. 1997).
Battaglia esordisce prendendo in esame il termine "dietetica", che etimologicamente può essere inteso come "etica della dieta", richiamando così l'attenzione sulla responsabilità (individuale e collettiva) rispetto alle proprie scelte alimentari. L'antropologo John Harris ha tematizzato la dissociazione insita nell'atteggiamento corrente verso gli animali non umani attraverso la dicotomia "animali buoni da mangiare/animali buoni da pensare": i primi gli animali d'allevamento, che trascorrono le loro vite di sofferenza lontano dal nostro sguardo e dalla nostra considerazione, i secondi gli animali domestici da affezione, con cui condividiamo le nostre case e che non ci sogneremmo mai di mangiare. Tale categorizzazione, e i comportamenti che ne derivano, dipendono interamente dai pregiudizi culturali propri della nostra società, infatti tutte le nostre abitudini alimentari sono di origine puramente culturale (tanto in relazione al valore simbolico associato al cibo, quanto alle ripercussioni economiche del nostro modo di nutrirci).
Secondo Battaglia l'etica della nonviolenza di matrice gandhiana costituisce la via da percorrere per superare questa nefasta dissociazione culturale. La nonviolenza non deve essere intesa riduttivamente come semplice disobbedienza o resistenza passiva, ma nel suo significato originario di "satyagrha", ovvero "forza della verità". La vera nonviolenza infatti è esattamente l'opposto di una mera strategia di rinuncia al conflitto adatta a giustificare il debole e il codardo, è in realtà la filosofia di vita e di lotta propria del forte, cioè di colui che crede profondamente nella verità delle sue idee, e quindi non ha bisogno della violenza perché non ha bisogno di vincere il suo nemico, ma mira piuttosto a convincere il suo avversario. In un'ottica nonviolenta dunque è fondamentale la tolleranza, intesa non come accettazione di tutto, ma come atteggiamento di rispetto della diversità, che si concretizza nel combattere anche duramente le idee dell'avversario senza però venir meno al rispetto della sua persona. In questo modo il comportamento nonviolento, instaurando un autentico dialogo che ha il rispetto reciproco per presupposto, può riuscire a spezzare quel circolo vizioso attraverso il quale la paura genera violenza, che a sua volta alimenta la paura, in una spirale senza fine. Gandhi stesso insisteva molto su questo aspetto, sottolineando sempre l'importanza della lealtà anche nel contesto dello scontro politico, e ricordando che ogni forma di disprezzo e/o demonizzazione dell'avversario costituisce una forma di violenza, ed è quindi deleteria per la causa della verità. Nella visione gandhiana dell'ahimsa il vegetarismo come scelta consapevole è la principale testimonianza del riconoscimento della fraternità universale, ovvero dell'adozione di un'"etica cosmica" che comprende tutte le creature viventi nella definizione di "prossimo". Ogni animale, in questa prospettiva, ha diritto di vivere quanto ogni altro (uomini compresi) e ha diritto al rispetto della propria identità in quanto "soggetto di una vita". Ed è infatti proprio attraverso l'annullamento sistematico dell'individualità (e della sua percezione da parte nostra) degli animali d'allevamento, ottenuto tanto con la segregazione fisica quanto mediante una strategia linguistico-culturale specista che li massifica e reifica definendoli col nome collettivo di "bestiame", che viene allontanata dalle nostre coscienze la consapevolezza della fraternità universale e del telos (scopo/destino/possibilità di vita) originario a cui ogni animale è naturalmente chiamato.
Storicamente il movimento "animalista" nasce in Inghilterra alla fine dell''800, in seno ad un più ampio emergere di istanze progressiste per l'allargamento delle frontiere morali e il riconoscimento di diritti civili e sociali ad altri soggetti "deboli" come le donne, i bambini, gli schiavi. Significativamente il primo saggio pubblicato dedicato a questo tema è quello di Henry Salt dal titolo I diritti degli animali in relazione al progresso sociale (Salt, H., Animals' Rights Considered in Relation to Social Progress, 1892). L'immagine del cerchio della considerazione etica che si espande progressivamente, a partire dalla presa di coscienza del fatto fondamentale che la capacità di soffrire accomuna tutti gli esseri senzienti ben oltre le differenze di genere, razza o specie, è una efficace rappresentazione dell'irrinunciabile saldatura tra l'aspetto morale e quello politico nella teoria e nella pratica della nonviolenza, e allo stesso tempo un continuo richiamo a contestualizzare la lotta animalista in un impegno etico a tutto campo. L'adesione alla nonviolenza infatti implica l'assunzione di un atteggiamento organico di "cittadinanza attiva", capace di comprendere la comunanza di destino tra uomini, animali e pianeta. In Italia la rivendicazione di considerazione etica per gli animali si manifesta come movimento di opinione negli anni '70 del '900, in seguito alla crescita della coscienza ecologica e allo sviluppo dell'etologia, ma non si può non ricordare che già negli anni '50 Aldo Capitini aveva autonomamente elaborato una filosofia "animalista" basata sul concetto di nonviolenza e primariamente ispirata al riconoscimento dell'animale come prossimo, con l'intento di contrapporsi sia alla tradizione culturale di stampo cartesiano, sia al cristianesimo istituzionale (fortemente antropocentrico) in qualità di "religione aperta", laica e spontaneamente originata dall'interiorità del soggetto morale.

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