Forse non è usuale accostare Aldo Capitini al pensiero filosofico dell’ antispecismo che, sviluppato in particolare dai filosofi Jeremy Bentham, Peter Singer e Tom Regan, muove i suoi primi passi partendo dalla definizione (e successiva analisi critica) del suo esatto contrario, lo Specismo, analogamente a quanto accade per il termine nonviolenza.
Troppo spesso vengono più o meno consapevolmente confusi e accostati i due termini ‘animalismo’, universalmente compreso e riconosciuto, che può essere semplicisticamente definito come un movimento per la difesa e la protezione dei diritti degli esseri non umani, e ‘antispecismo’, termine che risulta ai più quantomeno nuovo, ma che è di fatto molto più completo e allo stesso tempo più rivoluzionario e sovversivo.
‘Specismo’ è un vocabolo coniato da Richard Ryder (psicologo inglese convintosi dell’immoralità della sperimentazione sugli animali, precedentemente da lui stesso praticata) sul calco del ben più noto ‘razzismo’, allo scopo di porre in evidenza le analogie tra le due posizioni e dimostrare in tal modo che le motivazioni filosofiche e morali utilizzate per condannare il secondo sono similmente applicabili anche al primo. Di fatto, come l’antirazzismo rifiuta ogni discriminazione basata sulla diversità razziale umana, l’antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro degli altri esseri senzienti.
Come ovvio, tuttavia, la filosofia ‘specista’ non è certo nata nell’ultimo secolo ma risale approssimativamente a 20˙000 anni fa ed è universalmente diffusa in quasi tutte le culture (con importanti eccezioni quali ad esempio buddhismo e induismo), in particolar modo in Occidente, perché strettamente connessa alla visione antropocentrica del mondo che considera gli esseri umani dotati di uno ‘status morale’ superiore e quindi intrinsecamente portatori di diritti in misura maggiore agli altri esseri senzienti non-umani. Considerevoli apporti all’ideologia dello Specismo sono inoltre derivati dal potere e dall’influenza del dogma religioso contenuto nella Genesi biblica:
1:26 ‹‹E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ›› 9:2-3 ‹‹ Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame, e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. ›› (1).
L’ideologia illuminista settecentesca ha successivamente contributo [legittimando il proprio ‘credo’ con il recupero e la rivisitazione del pensiero di grandi filosofi del passato (come Aristotele) o del secolo precedente (come Bacone e Cartesio)] a supportare, rafforzandola, questa concezione dell’uomo, pur partendo da presupposti antitetici : la ragione, l’intelletto che vince sulla superstizione ha lo scopo e il diritto di conoscere e quindi comandare la natura ‘bruta’. Si potrebbe – ma non è qui la sede – continuare a lungo, ripercorrendo le fasi storiche precedenti e successive, ad elencare pensatori e correnti che hanno supportato l’antropocentrismo e dunque lo Specismo.
Sicuramente la strumentalizzazione e l’adattamento illegittimo della teoria evoluzionistica darwiniana della metà del XIX sec. hanno nutrito questo teoria; un’analisi acuta ed accurata delle teorie darwiniane in rapporto alla questione etica è offerta da James Rachels in “Creati dagli animali” – implicazioni morali del darwinismo” (2), al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti in merito.
L’umanità ha dunque da lungo tempo creduto nel legittimo diritto – e talora nel dovere – di dominare, sfruttare, utilizzare per i propri fini la natura e quindi tutti gli esseri ‘senzienti’.
E’ proprio distaccandosi e prendendo le distanze da quest’ottica che pone gli interessi umani al centro e al di sopra di tutto, che nasce la filosofia antispecista, la quale, abbracciando una visione biocentrica dell’esistenza, si propone di ribaltare le premesse a sostegno dello Specismo, ponendo le basi filosofiche e morali per attribuire uguale considerazione di interessi a tutti gli esseri dotati di sensibilità, intendendo il termine come ‘capacità di provare piacere e dolore’, caratteristica intuitivamente indipendente dalla specie di appartenenza.
In Capitini possiamo ritrovare una riflessione analoga a proposito delle metodologie di azione politica e sociale, che sono regolate e guidate dalla visione della realtà che ognuno si crea. Se si concepisce una visione dualistica, che immagina due distinti gruppi di appartenenza, di cui uno privilegiato ed uno inevitabilmente oppresso e asservito si pongono le premesse del classismo e quindi della disuguaglianza. Partendo invece dal presupposto di una visione monistica della vita, nella quale ogni essere è parte di un tutto, (che è poi una rivisitazione ed un arricchimento della visione biocentrica, in cui la vita, in tutte le sue forme è al centro di tutto), viene a cadere qualsivoglia differenza qualitativa tra creature umane e non umane, imponendo di conseguenza un’estensione del principio di ‘rispetto della vita’ anche agli esseri animali (3).
Già Albert Schweitzer, figura eclettica contemporanea di Capitini e a lui assai affine in particolare nella teorizzazione del ‘rispetto della vita’, aveva riflettuto al proposito:
È destino di ogni verità essere oggetto di scherno quando viene proclamata per la prima volta. Un tempo era considerato sciocco supporre che i neri fossero realmente esseri umani e dovessero essere trattati come tali. Quello che era considerato sciocco adesso è una verità riconosciuta. Oggi è considerato un'esagerazione proclamare un uguale rispetto per ogni forma di vita come richiesta di un'etica razionale. Ma verrà il giorno in cui le persone saranno stupite dal fatto che la razza umana sia esistita per tanto tempo prima che venisse riconosciuto che questa sconsiderata distruzione della vita è incompatibile con la vera etica. Etica significa estendere la responsabilità a tutto ciò che ha vita. (4)
Analogamente, l’approccio di Capitini alla questione parte dal presupposto che il criterio fondamentale per raggiungere qualsivoglia obiettivo è la perseveranza, ma mai disgiunta dalla gradualità, dal procedere per piccoli passi, per tappe, ognuna delle quali decreti un seppur minimo successo, un progresso verso un’estensione dell’amore e dell’apertura agli altri, siano essi umani o non umani. Anche Capitini, come Schweitzer, ripercorre i progressi storici in tal senso, auspicando continui miglioramenti, sistematiche ‘aggiunte’: ne “La nonviolenza oggi, p. 60” si legge: ‹‹ (Il superamento) così è avvenuto circa la schiavitù giuridica, così potrebbe avvenire per il salariato proletario; come è avvenuto per l'antropofagia, così potrà avvenire per il carnivorismo›› .(5)
La nonviolenza è anche inquietudine, tensione verso una perfettibilità del proprio atteggiamento e comportamento morale, ed è proprio la sensazione e la certezza che ancora molti sforzi sono da fare, che porta ad un graduale progresso verso forme d’amore e rispetto sempre più omnicomprensive. La soddisfazione per un risultato raggiunto, per un piccolo passo fatto sulla strada per la nonviolenza deve sempre accompagnarsi alla consapevolezza che ancora molto si deve e si può fare: infatti, quanto agli organismi viventi, Capitini auspica che la nonviolenza vada nella direzione dello sforzo verso il maggior rispetto possibile, sia della vita vegetale che animale, indicando nella scienza e nella medicina in particolare, la via per ottimizzare l’uso delle risorse limitandone ai massimi livelli la distruzione. ‹‹Se non si può far tutto, molto si può certamente fare, e si deve: anzi, siamo in ritardo. Chi vuol far tutto, altrimenti non intende mettersi all’opera, non fa nulla e probabilmente non è innamorato della cosa, perché l’amore è attivo›› (6).
A sessant’anni di distanza da questo pionieristico invito di Capitini ad agire è amaro constatare che il “ritardo” si è accumulato e la violenza verso le creature più deboli moltiplicata (sia numericamente che qualitativamente, a giudicare, solo per fare alcuni esempi, dal perpetrarsi della vivisezione, dal moltiplicarsi degli allevamenti intensivi e dei fenomeni ad essi interconnessi. Basti accennare ai continui disboscamenti dei ‘polmoni verdi’ come la foresta amazzonica per far posto a terreni adibiti a pascolo o colture da destinarsi al bestiame ed al conseguente impoverimento e malnutrizione cronica delle popolazioni cui questi stessi terreni vengono sottratti.
A proposito delle implicazioni connesse all’allevamento degli animali, tale pratica non è stata mai del resto condannata esplicitamente da Capitini, ma per ragioni che definirei sia culturali che soprattutto cronologiche. E’ infatti del tutto evidente che l’allevamento ‘a conduzione familiare’ o ‘il modello fattoria’ come oggi si suole chiamare, pur privando comunque gli esseri non – umani allevati del diritto ad una vita libera e selvatica, stabiliva una sorta di “alleanza” tra uomo e animale, alleanza basata su forme di rispetto più accettabili, in cui all’animale allevato venivano garantiti cibo e protezione in cambio di carne, uova, latte ecc…
‘Il modello fattoria’ non altera il rapporto di forza, non muta l’ideologia del dominio, ma garantisce, stabilendo un rapporto di conoscenza più stretto tra uomo e animale, condizioni di esistenza migliori, nonché una sostenibilità ambientale accettabile.
Capitini non ha potuto conoscere a fondo il cambiamento radicale che, in Italia a partire dal secondo dopoguerra, ma con sviluppi devastanti soltanto a partire dalla fine degli anni’60 inizio anni ’70 ha investito questo settore cosiddetto ‘di sviluppo’. L’applicazione delle metodologie industriali della catena di montaggio agli allevamenti ha creato forme insostenibili di sfruttamento e oppressione e pericolosamente gettato le basi per un successivo degrado ambientale che ai giorni nostri è purtroppo tangibile e difficilmente arrestabile. Mangiare carne oggi, ma ugualmente nutrirsi di prodotti animali derivati, significa, purtroppo, sostenere un sistema economico iniquo, ma anche dispendioso, inefficiente e gravemente inquinante, che ha una diretta ripercussione sui Paesi più poveri e sull’ambiente.
Per avere un’idea del solo impatto sociale del consumo di carne e prodotti derivati (trascurando, perciò, ma unicamente per ragioni di sintesi, l’impatto sull’ambiente e la sofferenza animale) basti accennare allo studio dell’economista francese Frances Moore Lappé la quale ha calcolato che in un anno, nei soli Stati Uniti, sono state prodotte 145 milioni di tonnellate di cereali e soia utilizzati per il nutrimento degli animali da allevamento; per contro, sono stati ricavati 21 milioni di tonnellate di carne, latte, uova. E’ evidente che la differenza di 124 milioni di tonnellate di cibo sprecato è intollerabilmente alta e ancor più se si considera che equivale ad un pasto al giorno completo per tutti gli abitanti della terra! (7).
E’ senz’altro una verità scomoda da accettare, ma occorre rendersi conto del problema e iniziare, da subito, a porvi rimedio tramite una delle metodologie di lotta nonviolenta più semplice: il boicottaggio.
In altre parole Capitini non avrebbe potuto ritenere eticamente sostenibile servirsi anche soltanto dei prodotti così detti ‘derivati’, escludendo soltanto la carne dall’alimentazione, essendo a conoscenza che la brutalità di trattamento ad esempio dei bovini ‘da latte’ o delle ‘galline ovaiole’ è pari o addirittura peggiore di quella riservata agli stessi animali allevati per la loro carne e tantomeno potendo oggi verificare il drammatico retroscena che si cela dietro ad un’abitudine alimentare consolidata e diffusa da secoli di ‘cultura del dominio’.
Del resto, con il messaggio della ‘tensione’, a progredire sempre sulla strada della nonviolenza, Capitini ha fatto ancor di più che se si fosse fatto soltanto promotore del veganesimo (anziché del vegetarianesimo): ha aperto ancor più la strada a possibili perfezionamenti nel campo dell’etica del rispetto della vita.
Capitini non ha invitato – in quest’ottica - soltanto al vegetarianesimo, ma ha metaforicamente dato la prima, importante spinta alla celeberrima sfera sul piano inclinato: sta ad ognuno di noi verificare dove essa sia arrivata, quanta strada abbia fatto finora e se sia o meno necessario cambiarle percorso o accelerarne il moto. E’ soprattutto utile partire, ciascuno come ritiene più opportuno e consono, a piccoli passi o bruciando le tappe, ma senza aspettare che altri diano avvio al cambiamento: del resto, Capitini stesso ne dice:
[...]troppe nefandezze sono oggi compiute "a fin di bene" ; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto. E bisogna rifarsi dal fondamento originario..., dall'inizio, dal basso, dall'esistenza dei singoli proprio come esistenti, ed amarli proprio come tali, come fa la madre. Se non tutti faranno così, sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto (8).
C’è un aspetto da considerare, tuttavia, del pensiero di Capitini, che sembra solo apparentemente in contrasto con la filosofia antispecista: Capitini muove sempre la sua riflessione dall’umanità, e dalla consapevolezza, che deve essere presente in ogni individuo, della fortuna di appartenere al genere umano, nonostante talora ci sentiamo attratti dalla semplicità e dalla spontanea vicinanza a Dio propria di creature meno complesse e più umili. ‹‹Ma la persuasione più intima a noi è di essere umani, che tali torniamo ad essere ad ogni istante e tali desideriamo di tornare e vederci negli altri esseri umani ›› (9)
Tuttavia, il suo pensiero si arricchisce di una suggestione che tanto rimanda al ‘Cantico’ Francescano, quando elabora il concetto di ‘amore religioso’ che ‘muove verso le cose’ -inanimate dunque-definite ‘sorelle’. ‘La nonviolenza verso le cose sta nel…non mostrare burbanza in mezzo ad esse, nel considerarle anzitutto come contenuto di amore religioso al di sopra di ogni utilità’
E’ con quest’ultima riflessione che si può aprire un ulteriore, fecondo parallelismo tra Capitini ed uno dei maggiori filosofi dell’antispecismo: Peter Singer, proprio a proposito della determinazione dei mezzi e dei fini.
Sappiamo che Immanuel Kant, nel 1780, durante le sue lezioni di etica, così diceva ai suoi studenti: ‹‹Per quanto riguarda gli animali, noi non abbiamo nessun dovere diretto nei loro confronti. Gli animali non hanno autocoscienza e quindi non sono che dei mezzi rispetto ad un fine; tale fine è l’uomo›› in Lezioni di etica.(10)
Proprio nello stesso anno, usciva però anche una voce fuori dal coro, che tanto ricorda il pensiero capitiniano: quella di Jeremy Bentham che pioneristicamente sosteneva:
Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare una linea invalicabile? La facoltà della ragione o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone più comunicativi di un bambino di un giorno, si una settimana o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: ‘Possono ragionare?’, né: ‘Possono parlare?’, ma: ‘Possono soffrire?’ (11)
Tornando alla determinazione dei mezzi e dei fini, Capitini ne La nonviolenza oggi, Edizioni Comunità –Milano,1962 considera la distinzione kantiana come ampiamente superabile in nome di un progredire ed un ampliarsi della sfera di azione nonviolenta: ‹‹progresso sta proprio nell’ampliare la sfera di ciò che è fine e per es. l’esistenza dello schiavo valeva una volta semplicemente come mezzo, ora invece vale come fine›› (12).
Il non porsi barriere invalicabili è dunque fondamentale per abbandonare quell’egocentrismo che Capitini identifica come una delle forme in cui si manifesta il ‘peccato di chiusura’, superabile appunto sentendo tutti i viventi compresenti e non più escludendo dalla considerazione e dall’interesse gran parte delle forme di vita.
Il comportamento essenzialmente ‘inerziale’ dell’essere umano in campo animale, che si manifesta in un susseguirsi di atti violenti, percepiti, dal singolo, più o meno consapevolmente, deve subire una scossa, ed essere prima di tutto compreso, ragionato, soppesato.
A niente valgono, ed anzi, risultano controproducenti coercizione e condanna delle usanze consolidate, poiché l’essere umano adulto per natura tende a difendere posizioni e credenze acquisite e radicate.
Più utile può risultare la persuasione, ma ancor più produttiva credo possa essere l’arte della maieutica di socratica memoria: credo infatti, con Capitini, presente nell’essere umano un enorme potenziale positivo, e in particolare ritengo che ognuno, raggiunto il pieno possesso degli strumenti conoscitivi adeguati e quindi delle doverose informazioni sull’argomento, debba compiere un personalissimo percorso interiore per giungere ad una altrettanto personale conclusione.
L’educazione, fin dall’infanzia, alla riflessione e all’elaborazione di proprie idee libere da preconcetti e barriere sociali è essenziale e, nel caso in questione, particolarmente utile, vista la naturale empatia e l’affetto che in genere i bambini provano nei confronti degli animali, sentimento che paradossalmente spesso viene riversato su giocattoli di peluche, simulacri di animali reali, di cui quotidianamente, e spesso del tutto inconsapevolmente si nutre.
Questa ‘inconsapevolezza’, che in realtà altro non è se non una forma di rimozione, porta di fatto anche l’adulto a recidere qualsivoglia collegamento tra il cucciolo di peluche e il corrispettivo reale che ha nel piatto, per non dover confrontarsi con rimorsi o sensi di colpa.
Si tratta di un comportamento tanto paradossale quanto diffuso nella nostra cultura, ma cominciare a riflettere ed analizzare la questione può essere il primo passo per imboccare una strada diversa, più consapevole e rispettosa della vita in tutte le sue forme.
Del resto scegliere che cosa mangiare è prerogativa umana e rientra nella sfera della libera iniziativa, della capacità di arbitrio propria dell’essere umano. In tal senso la scelta vegetariana rende – sostiene Capitini – liberi da una mentalità acquisita, dalla convinzione sbagliata che le creature prima utilizzate come nutrimento siano semplici mezzi dei quali abusare. Non solo: Capitini ricorda anche che il vegetarianesimo in un certo senso ‘purifica’ anche il corpo, evitando l’introduzione delle tossine che, le carni dell’animale, provato da stress e paura, inevitabilmente contengono.
Anche Singer ne Liberazione Animale (13)riflette analogamente sulla questione sostenendo che se siamo disposti a togliere la vita a un altro essere soltanto allo scopo di soddisfare il nostro gusto per un particolare tipo di cibo, quell’essere non è niente di più che un mezzo per i nostri fini.
E’ noto che tra le motivazioni più facilmente addotte per sorvolare o quantomeno rimandare la questione sulla condizione di oppressione degli esseri non-umani c’è l’assunto che ‘gli esseri umani siano al primo posto’ e che nessuna questione riguardante gli animali possa essere ragionevolmente comparata ai problemi riguardanti gli umani. Certo si potrebbe tacciare questo assunto di ‘Specismo’ ma non possiamo dubitare del fatto che al mondo esistano problemi gravi che meritano attenzione ed energia come fame, povertà , guerra, minaccia di distruzione atomica, questione ambientale ecc… A questo proposito i punti da esaminare sono essenzialmente un paio: il primo riguarda lo stretto legame che intercorre tra molti di questi problemi, legati, tra l’altro, più o meno direttamente con il consumo di alimenti di origine animale. Tale legame non sempre è colto dalla collettività, che spesso tende a concentrarsi sul singolo problema senza valutarne l’impatto globale.
Non tutti sanno ad esempio quanto aggravi l’inquinamento ambientale l’immissione dei circa 19 milioni di tonnellate annue di deiezioni animali, ricche di metano, sostanza corresponsabile dell’effetto serra. Per non parlare dell’inquinamento delle falde acquifere, del disboscamento feroce della foresta pluviale dell’America Centrale e Meridionale, metà della quale è stata abbattuta per l’allevamento (fonte FAO e USA Agency for International Development). Potremmo continuare così a lungo stabilendo legami e correlazioni di questo tipo.
Il secondo punto da prendere in considerazione è che molto spesso, più o meno consapevolmente si ha la tendenza a mettersi sulla difensiva, utilizzando genericamente la priorità dei ‘problemi umani’ per non riflettere sulle azioni che potrebbero essere compiute in favore dei non-umani. In sostanza, nessuno vuol confutare il fatto che l’impegno attivo per una causa impieghi tempo ed energie che non potranno quindi essere utilizzate per sostenere un’altra causa; per fare un esempio, chi si occupa attivamente per combattere la guerra non avrà tempo e forze da dedicare alla lotta alla vivisezione.
Questo è un dato di fatto, che tuttavia non è incompatibile e non implica affatto che quella persona non possa aderire al boicottaggio dei prodotti della crudeltà dell’allevamento industriale, dal momento che non occorre più tempo per essere vegetariani di quanto ne occorra per nutrirsi di carne. Ed è questo il punto fondamentale su cui soffermarci: la relativa semplicità di una scelta come quella vegana, poiché tale scelta non solo non interferisce minimamente con progetti e programmi che riguardino la solidarietà con gli esseri umani, ma addirittura si lega profondamente a questo sentimento, poiché sospendendo il consumo di carne e derivati si accresce di conseguenza la quantità di cereali disponibili per nutrire popolazioni in difficoltà, risparmiando nel contempo acqua energia e foreste.
Troppo spesso vengono più o meno consapevolmente confusi e accostati i due termini ‘animalismo’, universalmente compreso e riconosciuto, che può essere semplicisticamente definito come un movimento per la difesa e la protezione dei diritti degli esseri non umani, e ‘antispecismo’, termine che risulta ai più quantomeno nuovo, ma che è di fatto molto più completo e allo stesso tempo più rivoluzionario e sovversivo.
‘Specismo’ è un vocabolo coniato da Richard Ryder (psicologo inglese convintosi dell’immoralità della sperimentazione sugli animali, precedentemente da lui stesso praticata) sul calco del ben più noto ‘razzismo’, allo scopo di porre in evidenza le analogie tra le due posizioni e dimostrare in tal modo che le motivazioni filosofiche e morali utilizzate per condannare il secondo sono similmente applicabili anche al primo. Di fatto, come l’antirazzismo rifiuta ogni discriminazione basata sulla diversità razziale umana, l’antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro degli altri esseri senzienti.
Come ovvio, tuttavia, la filosofia ‘specista’ non è certo nata nell’ultimo secolo ma risale approssimativamente a 20˙000 anni fa ed è universalmente diffusa in quasi tutte le culture (con importanti eccezioni quali ad esempio buddhismo e induismo), in particolar modo in Occidente, perché strettamente connessa alla visione antropocentrica del mondo che considera gli esseri umani dotati di uno ‘status morale’ superiore e quindi intrinsecamente portatori di diritti in misura maggiore agli altri esseri senzienti non-umani. Considerevoli apporti all’ideologia dello Specismo sono inoltre derivati dal potere e dall’influenza del dogma religioso contenuto nella Genesi biblica:
1:26 ‹‹E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ›› 9:2-3 ‹‹ Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame, e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. ›› (1).
L’ideologia illuminista settecentesca ha successivamente contributo [legittimando il proprio ‘credo’ con il recupero e la rivisitazione del pensiero di grandi filosofi del passato (come Aristotele) o del secolo precedente (come Bacone e Cartesio)] a supportare, rafforzandola, questa concezione dell’uomo, pur partendo da presupposti antitetici : la ragione, l’intelletto che vince sulla superstizione ha lo scopo e il diritto di conoscere e quindi comandare la natura ‘bruta’. Si potrebbe – ma non è qui la sede – continuare a lungo, ripercorrendo le fasi storiche precedenti e successive, ad elencare pensatori e correnti che hanno supportato l’antropocentrismo e dunque lo Specismo.
Sicuramente la strumentalizzazione e l’adattamento illegittimo della teoria evoluzionistica darwiniana della metà del XIX sec. hanno nutrito questo teoria; un’analisi acuta ed accurata delle teorie darwiniane in rapporto alla questione etica è offerta da James Rachels in “Creati dagli animali” – implicazioni morali del darwinismo” (2), al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti in merito.
L’umanità ha dunque da lungo tempo creduto nel legittimo diritto – e talora nel dovere – di dominare, sfruttare, utilizzare per i propri fini la natura e quindi tutti gli esseri ‘senzienti’.
E’ proprio distaccandosi e prendendo le distanze da quest’ottica che pone gli interessi umani al centro e al di sopra di tutto, che nasce la filosofia antispecista, la quale, abbracciando una visione biocentrica dell’esistenza, si propone di ribaltare le premesse a sostegno dello Specismo, ponendo le basi filosofiche e morali per attribuire uguale considerazione di interessi a tutti gli esseri dotati di sensibilità, intendendo il termine come ‘capacità di provare piacere e dolore’, caratteristica intuitivamente indipendente dalla specie di appartenenza.
In Capitini possiamo ritrovare una riflessione analoga a proposito delle metodologie di azione politica e sociale, che sono regolate e guidate dalla visione della realtà che ognuno si crea. Se si concepisce una visione dualistica, che immagina due distinti gruppi di appartenenza, di cui uno privilegiato ed uno inevitabilmente oppresso e asservito si pongono le premesse del classismo e quindi della disuguaglianza. Partendo invece dal presupposto di una visione monistica della vita, nella quale ogni essere è parte di un tutto, (che è poi una rivisitazione ed un arricchimento della visione biocentrica, in cui la vita, in tutte le sue forme è al centro di tutto), viene a cadere qualsivoglia differenza qualitativa tra creature umane e non umane, imponendo di conseguenza un’estensione del principio di ‘rispetto della vita’ anche agli esseri animali (3).
Già Albert Schweitzer, figura eclettica contemporanea di Capitini e a lui assai affine in particolare nella teorizzazione del ‘rispetto della vita’, aveva riflettuto al proposito:
È destino di ogni verità essere oggetto di scherno quando viene proclamata per la prima volta. Un tempo era considerato sciocco supporre che i neri fossero realmente esseri umani e dovessero essere trattati come tali. Quello che era considerato sciocco adesso è una verità riconosciuta. Oggi è considerato un'esagerazione proclamare un uguale rispetto per ogni forma di vita come richiesta di un'etica razionale. Ma verrà il giorno in cui le persone saranno stupite dal fatto che la razza umana sia esistita per tanto tempo prima che venisse riconosciuto che questa sconsiderata distruzione della vita è incompatibile con la vera etica. Etica significa estendere la responsabilità a tutto ciò che ha vita. (4)
Analogamente, l’approccio di Capitini alla questione parte dal presupposto che il criterio fondamentale per raggiungere qualsivoglia obiettivo è la perseveranza, ma mai disgiunta dalla gradualità, dal procedere per piccoli passi, per tappe, ognuna delle quali decreti un seppur minimo successo, un progresso verso un’estensione dell’amore e dell’apertura agli altri, siano essi umani o non umani. Anche Capitini, come Schweitzer, ripercorre i progressi storici in tal senso, auspicando continui miglioramenti, sistematiche ‘aggiunte’: ne “La nonviolenza oggi, p. 60” si legge: ‹‹ (Il superamento) così è avvenuto circa la schiavitù giuridica, così potrebbe avvenire per il salariato proletario; come è avvenuto per l'antropofagia, così potrà avvenire per il carnivorismo›› .(5)
La nonviolenza è anche inquietudine, tensione verso una perfettibilità del proprio atteggiamento e comportamento morale, ed è proprio la sensazione e la certezza che ancora molti sforzi sono da fare, che porta ad un graduale progresso verso forme d’amore e rispetto sempre più omnicomprensive. La soddisfazione per un risultato raggiunto, per un piccolo passo fatto sulla strada per la nonviolenza deve sempre accompagnarsi alla consapevolezza che ancora molto si deve e si può fare: infatti, quanto agli organismi viventi, Capitini auspica che la nonviolenza vada nella direzione dello sforzo verso il maggior rispetto possibile, sia della vita vegetale che animale, indicando nella scienza e nella medicina in particolare, la via per ottimizzare l’uso delle risorse limitandone ai massimi livelli la distruzione. ‹‹Se non si può far tutto, molto si può certamente fare, e si deve: anzi, siamo in ritardo. Chi vuol far tutto, altrimenti non intende mettersi all’opera, non fa nulla e probabilmente non è innamorato della cosa, perché l’amore è attivo›› (6).
A sessant’anni di distanza da questo pionieristico invito di Capitini ad agire è amaro constatare che il “ritardo” si è accumulato e la violenza verso le creature più deboli moltiplicata (sia numericamente che qualitativamente, a giudicare, solo per fare alcuni esempi, dal perpetrarsi della vivisezione, dal moltiplicarsi degli allevamenti intensivi e dei fenomeni ad essi interconnessi. Basti accennare ai continui disboscamenti dei ‘polmoni verdi’ come la foresta amazzonica per far posto a terreni adibiti a pascolo o colture da destinarsi al bestiame ed al conseguente impoverimento e malnutrizione cronica delle popolazioni cui questi stessi terreni vengono sottratti.
A proposito delle implicazioni connesse all’allevamento degli animali, tale pratica non è stata mai del resto condannata esplicitamente da Capitini, ma per ragioni che definirei sia culturali che soprattutto cronologiche. E’ infatti del tutto evidente che l’allevamento ‘a conduzione familiare’ o ‘il modello fattoria’ come oggi si suole chiamare, pur privando comunque gli esseri non – umani allevati del diritto ad una vita libera e selvatica, stabiliva una sorta di “alleanza” tra uomo e animale, alleanza basata su forme di rispetto più accettabili, in cui all’animale allevato venivano garantiti cibo e protezione in cambio di carne, uova, latte ecc…
‘Il modello fattoria’ non altera il rapporto di forza, non muta l’ideologia del dominio, ma garantisce, stabilendo un rapporto di conoscenza più stretto tra uomo e animale, condizioni di esistenza migliori, nonché una sostenibilità ambientale accettabile.
Capitini non ha potuto conoscere a fondo il cambiamento radicale che, in Italia a partire dal secondo dopoguerra, ma con sviluppi devastanti soltanto a partire dalla fine degli anni’60 inizio anni ’70 ha investito questo settore cosiddetto ‘di sviluppo’. L’applicazione delle metodologie industriali della catena di montaggio agli allevamenti ha creato forme insostenibili di sfruttamento e oppressione e pericolosamente gettato le basi per un successivo degrado ambientale che ai giorni nostri è purtroppo tangibile e difficilmente arrestabile. Mangiare carne oggi, ma ugualmente nutrirsi di prodotti animali derivati, significa, purtroppo, sostenere un sistema economico iniquo, ma anche dispendioso, inefficiente e gravemente inquinante, che ha una diretta ripercussione sui Paesi più poveri e sull’ambiente.
Per avere un’idea del solo impatto sociale del consumo di carne e prodotti derivati (trascurando, perciò, ma unicamente per ragioni di sintesi, l’impatto sull’ambiente e la sofferenza animale) basti accennare allo studio dell’economista francese Frances Moore Lappé la quale ha calcolato che in un anno, nei soli Stati Uniti, sono state prodotte 145 milioni di tonnellate di cereali e soia utilizzati per il nutrimento degli animali da allevamento; per contro, sono stati ricavati 21 milioni di tonnellate di carne, latte, uova. E’ evidente che la differenza di 124 milioni di tonnellate di cibo sprecato è intollerabilmente alta e ancor più se si considera che equivale ad un pasto al giorno completo per tutti gli abitanti della terra! (7).
E’ senz’altro una verità scomoda da accettare, ma occorre rendersi conto del problema e iniziare, da subito, a porvi rimedio tramite una delle metodologie di lotta nonviolenta più semplice: il boicottaggio.
In altre parole Capitini non avrebbe potuto ritenere eticamente sostenibile servirsi anche soltanto dei prodotti così detti ‘derivati’, escludendo soltanto la carne dall’alimentazione, essendo a conoscenza che la brutalità di trattamento ad esempio dei bovini ‘da latte’ o delle ‘galline ovaiole’ è pari o addirittura peggiore di quella riservata agli stessi animali allevati per la loro carne e tantomeno potendo oggi verificare il drammatico retroscena che si cela dietro ad un’abitudine alimentare consolidata e diffusa da secoli di ‘cultura del dominio’.
Del resto, con il messaggio della ‘tensione’, a progredire sempre sulla strada della nonviolenza, Capitini ha fatto ancor di più che se si fosse fatto soltanto promotore del veganesimo (anziché del vegetarianesimo): ha aperto ancor più la strada a possibili perfezionamenti nel campo dell’etica del rispetto della vita.
Capitini non ha invitato – in quest’ottica - soltanto al vegetarianesimo, ma ha metaforicamente dato la prima, importante spinta alla celeberrima sfera sul piano inclinato: sta ad ognuno di noi verificare dove essa sia arrivata, quanta strada abbia fatto finora e se sia o meno necessario cambiarle percorso o accelerarne il moto. E’ soprattutto utile partire, ciascuno come ritiene più opportuno e consono, a piccoli passi o bruciando le tappe, ma senza aspettare che altri diano avvio al cambiamento: del resto, Capitini stesso ne dice:
[...]troppe nefandezze sono oggi compiute "a fin di bene" ; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto. E bisogna rifarsi dal fondamento originario..., dall'inizio, dal basso, dall'esistenza dei singoli proprio come esistenti, ed amarli proprio come tali, come fa la madre. Se non tutti faranno così, sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto (8).
C’è un aspetto da considerare, tuttavia, del pensiero di Capitini, che sembra solo apparentemente in contrasto con la filosofia antispecista: Capitini muove sempre la sua riflessione dall’umanità, e dalla consapevolezza, che deve essere presente in ogni individuo, della fortuna di appartenere al genere umano, nonostante talora ci sentiamo attratti dalla semplicità e dalla spontanea vicinanza a Dio propria di creature meno complesse e più umili. ‹‹Ma la persuasione più intima a noi è di essere umani, che tali torniamo ad essere ad ogni istante e tali desideriamo di tornare e vederci negli altri esseri umani ›› (9)
Tuttavia, il suo pensiero si arricchisce di una suggestione che tanto rimanda al ‘Cantico’ Francescano, quando elabora il concetto di ‘amore religioso’ che ‘muove verso le cose’ -inanimate dunque-definite ‘sorelle’. ‘La nonviolenza verso le cose sta nel…non mostrare burbanza in mezzo ad esse, nel considerarle anzitutto come contenuto di amore religioso al di sopra di ogni utilità’
E’ con quest’ultima riflessione che si può aprire un ulteriore, fecondo parallelismo tra Capitini ed uno dei maggiori filosofi dell’antispecismo: Peter Singer, proprio a proposito della determinazione dei mezzi e dei fini.
Sappiamo che Immanuel Kant, nel 1780, durante le sue lezioni di etica, così diceva ai suoi studenti: ‹‹Per quanto riguarda gli animali, noi non abbiamo nessun dovere diretto nei loro confronti. Gli animali non hanno autocoscienza e quindi non sono che dei mezzi rispetto ad un fine; tale fine è l’uomo›› in Lezioni di etica.(10)
Proprio nello stesso anno, usciva però anche una voce fuori dal coro, che tanto ricorda il pensiero capitiniano: quella di Jeremy Bentham che pioneristicamente sosteneva:
Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare una linea invalicabile? La facoltà della ragione o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone più comunicativi di un bambino di un giorno, si una settimana o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: ‘Possono ragionare?’, né: ‘Possono parlare?’, ma: ‘Possono soffrire?’ (11)
Tornando alla determinazione dei mezzi e dei fini, Capitini ne La nonviolenza oggi, Edizioni Comunità –Milano,1962 considera la distinzione kantiana come ampiamente superabile in nome di un progredire ed un ampliarsi della sfera di azione nonviolenta: ‹‹progresso sta proprio nell’ampliare la sfera di ciò che è fine e per es. l’esistenza dello schiavo valeva una volta semplicemente come mezzo, ora invece vale come fine›› (12).
Il non porsi barriere invalicabili è dunque fondamentale per abbandonare quell’egocentrismo che Capitini identifica come una delle forme in cui si manifesta il ‘peccato di chiusura’, superabile appunto sentendo tutti i viventi compresenti e non più escludendo dalla considerazione e dall’interesse gran parte delle forme di vita.
Il comportamento essenzialmente ‘inerziale’ dell’essere umano in campo animale, che si manifesta in un susseguirsi di atti violenti, percepiti, dal singolo, più o meno consapevolmente, deve subire una scossa, ed essere prima di tutto compreso, ragionato, soppesato.
A niente valgono, ed anzi, risultano controproducenti coercizione e condanna delle usanze consolidate, poiché l’essere umano adulto per natura tende a difendere posizioni e credenze acquisite e radicate.
Più utile può risultare la persuasione, ma ancor più produttiva credo possa essere l’arte della maieutica di socratica memoria: credo infatti, con Capitini, presente nell’essere umano un enorme potenziale positivo, e in particolare ritengo che ognuno, raggiunto il pieno possesso degli strumenti conoscitivi adeguati e quindi delle doverose informazioni sull’argomento, debba compiere un personalissimo percorso interiore per giungere ad una altrettanto personale conclusione.
L’educazione, fin dall’infanzia, alla riflessione e all’elaborazione di proprie idee libere da preconcetti e barriere sociali è essenziale e, nel caso in questione, particolarmente utile, vista la naturale empatia e l’affetto che in genere i bambini provano nei confronti degli animali, sentimento che paradossalmente spesso viene riversato su giocattoli di peluche, simulacri di animali reali, di cui quotidianamente, e spesso del tutto inconsapevolmente si nutre.
Questa ‘inconsapevolezza’, che in realtà altro non è se non una forma di rimozione, porta di fatto anche l’adulto a recidere qualsivoglia collegamento tra il cucciolo di peluche e il corrispettivo reale che ha nel piatto, per non dover confrontarsi con rimorsi o sensi di colpa.
Si tratta di un comportamento tanto paradossale quanto diffuso nella nostra cultura, ma cominciare a riflettere ed analizzare la questione può essere il primo passo per imboccare una strada diversa, più consapevole e rispettosa della vita in tutte le sue forme.
Del resto scegliere che cosa mangiare è prerogativa umana e rientra nella sfera della libera iniziativa, della capacità di arbitrio propria dell’essere umano. In tal senso la scelta vegetariana rende – sostiene Capitini – liberi da una mentalità acquisita, dalla convinzione sbagliata che le creature prima utilizzate come nutrimento siano semplici mezzi dei quali abusare. Non solo: Capitini ricorda anche che il vegetarianesimo in un certo senso ‘purifica’ anche il corpo, evitando l’introduzione delle tossine che, le carni dell’animale, provato da stress e paura, inevitabilmente contengono.
Anche Singer ne Liberazione Animale (13)riflette analogamente sulla questione sostenendo che se siamo disposti a togliere la vita a un altro essere soltanto allo scopo di soddisfare il nostro gusto per un particolare tipo di cibo, quell’essere non è niente di più che un mezzo per i nostri fini.
E’ noto che tra le motivazioni più facilmente addotte per sorvolare o quantomeno rimandare la questione sulla condizione di oppressione degli esseri non-umani c’è l’assunto che ‘gli esseri umani siano al primo posto’ e che nessuna questione riguardante gli animali possa essere ragionevolmente comparata ai problemi riguardanti gli umani. Certo si potrebbe tacciare questo assunto di ‘Specismo’ ma non possiamo dubitare del fatto che al mondo esistano problemi gravi che meritano attenzione ed energia come fame, povertà , guerra, minaccia di distruzione atomica, questione ambientale ecc… A questo proposito i punti da esaminare sono essenzialmente un paio: il primo riguarda lo stretto legame che intercorre tra molti di questi problemi, legati, tra l’altro, più o meno direttamente con il consumo di alimenti di origine animale. Tale legame non sempre è colto dalla collettività, che spesso tende a concentrarsi sul singolo problema senza valutarne l’impatto globale.
Non tutti sanno ad esempio quanto aggravi l’inquinamento ambientale l’immissione dei circa 19 milioni di tonnellate annue di deiezioni animali, ricche di metano, sostanza corresponsabile dell’effetto serra. Per non parlare dell’inquinamento delle falde acquifere, del disboscamento feroce della foresta pluviale dell’America Centrale e Meridionale, metà della quale è stata abbattuta per l’allevamento (fonte FAO e USA Agency for International Development). Potremmo continuare così a lungo stabilendo legami e correlazioni di questo tipo.
Il secondo punto da prendere in considerazione è che molto spesso, più o meno consapevolmente si ha la tendenza a mettersi sulla difensiva, utilizzando genericamente la priorità dei ‘problemi umani’ per non riflettere sulle azioni che potrebbero essere compiute in favore dei non-umani. In sostanza, nessuno vuol confutare il fatto che l’impegno attivo per una causa impieghi tempo ed energie che non potranno quindi essere utilizzate per sostenere un’altra causa; per fare un esempio, chi si occupa attivamente per combattere la guerra non avrà tempo e forze da dedicare alla lotta alla vivisezione.
Questo è un dato di fatto, che tuttavia non è incompatibile e non implica affatto che quella persona non possa aderire al boicottaggio dei prodotti della crudeltà dell’allevamento industriale, dal momento che non occorre più tempo per essere vegetariani di quanto ne occorra per nutrirsi di carne. Ed è questo il punto fondamentale su cui soffermarci: la relativa semplicità di una scelta come quella vegana, poiché tale scelta non solo non interferisce minimamente con progetti e programmi che riguardino la solidarietà con gli esseri umani, ma addirittura si lega profondamente a questo sentimento, poiché sospendendo il consumo di carne e derivati si accresce di conseguenza la quantità di cereali disponibili per nutrire popolazioni in difficoltà, risparmiando nel contempo acqua energia e foreste.
Bibliografia
1. Bibbia, Genesi (1:26 / 9:2-3)
2. James Rachels, Created from Animals, BPOD, 1991; trad it. Creati dagli animali – implicazioni morali del darwinismo, Milano, Mondadori, 1996
3. Aldo Capitini, La nonviolenza, oggi, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, p. 63
4. Albert Schweitzer, Kultur und Ethik. Kulturphilosophie. Zweiter Teil, C. H. Beck, Muenchen 1953 (1° ed. 1923)
5. Capitini, La nonviolenza, oggi, cit. p. 60
6. Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza, Antologia degli scritti a cura di Mario Martini, Pisa, Edizioni ETS, 2004, p.43
7. Frances Moore Lappé, Diet for a small planet, New York, Ballantine books, 1982, pp. 69-71
8. Capitini, Le ragioni della nonviolenza, p. 41
9. Capitini, Le ragioni della nonviolenza, p. 42
10. E. Kant, Lezioni di etica, trad. it., Laterza, Bari 1971, p. 273.
11. J. Benthan, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Oxford, Clarendon Press, 1907 (1° ed. 1789) cit. cap
12. Capitini, La nonviolenza, oggi, cit. p. 60
13. Peter Singer, Animal liberation, New York Review/Random House, 1975; revised edition, New York Review/ Random House, 1990; trad. it. Liberazione animale, Milano, Il Saggiatore, 2003
14. Capitini, Lettera di religione n°18, (presentata come contributo al Congresso vegetariano che si svolgerà al C O R di Perugia il 14 giugno 1953)
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