Egli si è mostrato come tutti lo hanno sempre raccontato, cordiale, giocoso, sorridente, ma evidentemente conscio del proprio ruolo e molto determinato nel proprio obbiettivo palese nel titolo della manifestazione “La via per la pace interiore”, e cioè suggerire che questa pace esiste e che è alla portata di tutti coloro che vogliono ascoltare insegnamenti molto diversi da quelli impartiti costantemente dalla società moderna.
Il breve viaggio nei fondamenti del Buddismo tibetano, di fatto fondamenti di quasi tutte le scuole buddiste del mondo, è cominciato quindi venerdì mattina in una atmosfera incantata da un uomo così eccezionale per i canoni cui siamo comunemente abituati e dal piccolo gruppo di monaci che ne costituivano il seguito, durante il quale Sua Santità ha illustrato brevemente per quanto possibile una panoramica sulla nozione di religiosità umana e su tutte le attuali manifestazioni di questa, con qualche accenno storico-antropologico, utile alle molte persone presenti che forse di buddismo non avevano mai e poi mai sentito parlare.
Senza perdere tempo a confrontare pere con mele, questo doveva servire - ed infatti è servito - ad inquadrare il contesto degli insegnamenti che avrebbe impartito, portando velocemente a poterne comprendere i presupposti logici.
Già da questa prima premessa, io stessa - come testimone spero capace ancora di una qualche imparzialità – ho percepito la grande distanza tra la cultura millenaria del Tibet manifesta nel Dalai Lama e la nostra che di sé, della propria saggezza ed esperienza, sta via via cercando di rinnegare e dimenticare tutto.
Così, ogni volta che usava il sostantivo “esseri senzienti”, precisava qualcosa di scontato per loro e dimenticato da noi e cioè che anche gli animali sono esseri senzienti la cui sostanziale differenza sta nella diversa percezione del sé.
Come qualcuno sa, io sono buddista, ma seguo una scuola diversa e pratico un insegnamento diverso dalla scuola tibetana. Ciò nonostante, in quanto buddista, non ho mai sorvolato su questo basilare fondamento che lega appunto l’illuminazione alla percezione del sé ed alle illusioni che da questa derivano.
In sostanza, se il “sé” è illusorio e provvisorio, determinato da circostanze causali originarie - che ne confermano infatti la vacuità -, è evidente che non può certo essere una diversa percezione del sé a motivare la nostra convinzione di superiorità rispetto ad altre forme di viventi, qualsiasi esse siano.
Per me ciò è lapalissiano ma so quanto non sia evidente a tante altre persone buddiste e non. Purtroppo a conferma di questa mia convinzione, è stato assolutamente troppo frequente il vedere pelli e pellicce indossate dagli ascoltatori degli insegnamenti, e di sicuro parecchi di questi si sono nutriti più e più volte di carni durante quegli stessi giorni.
Io spero che leggendomi, ciascuno dei miei maestri non intraveda nelle mie parole una inutile critica moralista.
La mia vuole essere una semplice constatazione di quanto ormai sia facile vivere in una specie di schizofrenia etica, dove si promette di agire nel bene e di fatto si è comunque consapevoli di fare esattamente il contrario, perché sento il bisogno di cercarne e di trovarne spiegazione razionale, ma anche il dovere di sollevare il problema logico, etico, morale, filosofico e finemente religioso.
Gli insegnamenti sono entrati nel vivo della loro intensità il venerdì mattina, a seguito di una impegnativa lezione sulle maggiori scuole buddiste necessaria a spiegare il convincimento della purezza dell’insegnamento perpetuata dalle scuole tibetane, volendo poi giungere alla spiegazione di taluni passaggi carichi di significato di un testo chiave per molte scuole, e cioè il «Commentario alla Mente dell'Illuminazione» del Pandit Nagarjuna.
Stanza dopo stanza, il Dalai Lama ci ha condotti nella riflessione sul nostro ruolo nel mondo, sulla coerenza e sulla sensatezza del nostro vivere o delle nostre convinzioni, in un’ottica di irrilevanza della percezione limitata della realtà, fino a giungere la domenica mattina al momento topico in cui i presenti sono stati posti di fronte alla possibilità – non l’obbligo ovviamente - di pronunciare il giuramento dei bodhisattva…
Con la Motivazione di liberare gli esseri,
In Buddha, in Dharma, in Sangha,
Fino al raggiungimento dell'illuminazione
Io prendo rifugio sempre.
Con la Compassione e Saggezza
Io, per beneficiare gli esseri prigionieri,
Rimandendo di fronte al Buddha
genero la Mente dell'Illuminazione
Fin quando rimarrà lo spazio
Ci saranno gli esseri,
Finchè rimarrò fra loro
Possa io eliminare la loro sofferenza.
Ho dunque compiuto questo giuramento domenica mattina, nonostante sia convinta che il mantra della scuola di Nichiren, quella di cui pratico gli insegnamenti, sia proprio la stessa promessa ripetuta quotidianamente nei fatti e nelle parole. Ho promesso me stessa davanti al maestro supremo di una altra scuola nonostante mi sia evidente la presenza di differenze filosofiche e di metodo di ricerca, e comunque ben sapendo quanta fatica costi.
Con me migliaia di persone hanno fatto lo stesso giuramento. Molti come me non conoscevano né i rituali, né i passaggi di ciò che avrebbero fatto, ma nonostante questo si è trattato di un gesto importante, intenso, e spero per ciascuno nella propria sincerità, fortemente motivante.
Mi accompagna un dubbio atroce però, sicuramente dettato dalla mia scarsa saggezza e limitata visione dei fenomeni e per questo mi domando: quanti di noi aspiranti e promettenti bodhisattva di qualsiasi scuola, ricordano davvero in ogni momento della vita che la compassione non può e non deve essere rivolta verso il riconoscimento del sé altrui ma esclusivamente verso la loro sofferenza?
Quanti di noi hanno sentito davanti alla Santità del Lama, ma anche di fronte alle esperienze di tutti i giorni, che questa compassione dovrà portarci ad abbracciare ogni molecola della terra e ogni creatura che la abita, per trovare finalmente questa aspirata felicità, perché solo così potremo trasformare questa preziosa terra nella “Terra del Budda”?
In quanti ricorderemo che la “mente dell’illuminazione” è permeata del desiderio di illuminarsi allo scopo di non causare più sofferenza? Quanti di noi mediteranno o pregheranno o reciteranno i mantra ricocordandosi di questa banalità?
Confido molti, spero sempre di più, ma il cieco dubbio è logorante.
Spero che questa promessa così espressa, o espressa in milioni di altri modi partendo da qualsiasi altra religione o filosofia coerente con essa, possa raggiungere ogni uomo, da cuore a cuore, con la consapevolezza che se oggi sembra invece non andare neppure oltre i confini delle proprie case è solo a causa della distorsione di quella iniziale chiave lessicale e cioè “esseri senzienti”, più volte sottolineata dal Dalai Lama come riferita a tutti gli esseri viventi, ma invece così brutalmente riferita sempre più spesso ad una sola specie, quando non addirittura ad ancora più ristretti nuclei di individui.
Questa esperienza è stata infinitamente importante. Impossibile negarlo. Impossibile non riconoscere a tutti coloro che, come il Dalai Lama, portano questo messaggio nel mondo inducendo alla desiderio di promettersi al “bene”, stiano di fatto combattendo la tendenza assolutamente opposta. Vanno sostenuti, al di là delle spesso ridicole differenze di pratica, filosofia, e religione che crediamo possano dividerci. Vanno ringraziati, al di là delle idee diverse che spesso solo per ignoranza, per profonda ignoranza, crediamo di avere abbracciato.
Eva Melodia
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