martedì 20 luglio 2010

Credere in un movimento - di Eva Melodia

Osservare e criticare dovrebbe essere attività costruttiva, così mi attengo al rigor di logica ed all’intento di suggerire dei ragionevoli dubbi utili ad un qualche tipo di miglioramento in termini di metodo e prassi.

Ora che posso contare qualche anno di esperienza all’interno di ciò che viene genericamente chiamato antispecismo posso anche finalmente trarre conclusioni con spero, la capacità di sostenerle, argomentando correttamente, in maniera breve - nonostante al contrario sappia che ci sarebbe moltissimo da dire e fare emergere -, al fine di garantire un testo non troppo noioso per chi vorrà leggere, né troppo complicato per chi mi accusa sempre di intricare la questione più di quanto non sia veramente.
Tutto inizia con l’amara constatazione di come la parola antispecismo giri quasi esclusivamente in ambito animalista, in maniera impropria, fuorviata, diciamo pure devastante e con il fastidioso rilevare che la maggior parte di coloro che si sono appropriati di questo importante sostantivo, non sappiano di cosa parlano, non siano affatto antispecisti, siano solo superficialmente attratti e per brevi periodi dall’altisonanza della parola stessa, riuscendo più come strumenti antagonisti - forse loro malgrado -, dell’antispecismo stesso che come qualsiasi voglia e tipo di collaboratori.
L’arroganza che può emergere dal mio approccio, spero sia abbastanza fastidiosa da attirare l’attenzione di un pubblico di solito molto poco attento alla riflessione, al perdere tempo in cose come leggere, ascoltare, pensare, criticare, attività spesso liquidate come troppo complicate.

Nonostante non apprezzi particolarmente la definizione scritta su wikipedia di ciò che è l’antispecismo, uso la frase iniziale come ponte attraverso cui giungere al punto e questo perché immagino e spero che un individuo intelligente che attribuisca a se stesso un qualche aggettivo o attributo lo faccia con un minimo di cognizione di causa. Suppongo quindi che come step basilare, per ciascuna persona che da un certo giorno ha cominciato a definirsi antispecista, ci sia stato almeno l’interesse di leggere tale definizione.
In wikipedia leggiamo che ciò di cui stiamo parlando è un “movimento filosofico, politico e culturale” e sebbene si tratti di una premessa generica, è sicuramente una premessa valida.
Quattro parole messe in fila con un peso troppo importante, talvolta storicamente insostenibile che proprio non possono essere ingoiate intere e digerite senza alcuna dedizione al chiedersi cosa ciò significhi realmente.
Per stabilire allora quanto e come ci competa davvero e fino a che punto l’antispecismo basterebbe chiedersi che ruolo hanno nella nostra vita queste quattro parole ed onestamente decidere se abbracciarlo oppure se al contrario ripudiarlo, così da prenderne chiaramente le distanze ed evitare inutili fraintendimenti, confusione, perdite di tempo.
Come detto, sappiamo che per una qualche corrispondenza legata ad alcuni soggetti coinvolti nelle tematiche antispeciste, e cioè gli animali non umani, l’antispecismo si è primariamente sentito nominare in quello spazio vitale riconducibile all’animalismo. E’ però veramente facile affermare come un vastissimo numero di persone che a buona ragione si definisce animalista, non sia affatto antispecista e non abbia probabilmente molta affinità con esso se non a seguito di un profondo cambiamento, non meno complesso e radicale di quanto non lo sarebbe per chi non ha neppure basi animaliste.
La superficialità con cui è stato approcciato il problema ha creato un deleterio rebus che per ovvie ragioni, in pochi vogliono risolvere. Vediamo ora perché di tutti questi sedicenti animalisti, spesso citanti l’antispecismo, solo pochi possono dirsi consapevolmente e realmente tali, e come questa appropriazione indebita degeneri e danneggi l’idea che è alla base di quello che dovrebbe essere un movimento compatto, solido e capace di grandi cose.
In larga parte, l’animalismo, inteso in tutte le sue forme, purché sufficientemente coinvolgenti da avere un valore nella vita di una persona – non stiamo quindi parlando dell’impropria attribuizione di “animalismo” a chi semplicemente ama una tal razza di cani e gatti o ama il suo gatto e amenità simili – non ha, - nelle istituzioni che lo rappresentano quali associazioni e quant’altro -, alcuna rilevanza e interesse che sia di tipo politico, ma solo semmai di tipo interattivo rispetto alla legislazione. Coerentemente le persone che vi prendono parte attivamente spesso, troppo spesso, sono allineate a questa forma di espressione dell’animalismo, e cioè priva di interesse ed intenzione politica. Già questo significa che l’antispecismo non può essere per costoro una estensione di pensiero e metodo: l’antispecismo, che è per sua natura politico, non può essere realmente digerito e fatto proprio da chi non esprime attenzione politica. Fare girare appelli ed eventi su facebook, non può bastare per parlare di attività politica, ma di fatto questo è il massimo dell'impegno profuso per la stragrande maggioranza di coloro cui penso mentre scrivo.
La questione filosofica, posta quale prima caratteristica dell’antispecismo non è certo da poco. Se osserviamo il fenomeno animalista, macroscopicamente come microscopicamente, otteniamo l’immagine di un brulichio dettato da passione più che da idee, da emotività più che da analisi, da reazione a stimoli violenti, piuttosto che da predisposizione al lottare nel nome di qualche elaborazione teorica. Ciò comporta molto disinteresse verso l’aspetto filosofico dell’antispecismo, perché appunto, se assunto superficialmente come una qualche scatola simile a quella dell’animalismo, non è altro che un contenitore di empatia e/o soggettività cui non si dedica alcuna riflessione particolare.
Ecco che così pure tutti coloro che si mettono in bocca questa parola senza farsi carico anche dell’aspetto filosofico (purtroppo o per fortuna abbastanza complesso), violano il vincolo logico grazie al quale possono richiamarsi in qualche modo all’antispecismo.
Se consideriamo poi che la filosofia alla base di un movimento politico è ciò che di norma ne stabilisce i connotati, vediamo come anche i pochi animalisti dediti a qualche forma di politica, spesso rispondano in maniera superba rispetto all’importanza dell’aspetto filosofico (invece non a caso posizionato al primo posto nella breve definizione) limitandosi a portare avanti espressioni politiche figlie di altre filosofie, anche qui, confondendole. Così una bella ulteriore fetta di sedicenti antispecisti non dovrebbero considerarsi tali, nonostante l’impegno politico, poiché rispondenti di fatto ad altre idee, ad altri canoni, che per quanto simili o coerenti, non sono quel complesso insieme di pensieri legati tra loro perfettamente che si può chiamare antispecismo.
Abbiamo poi da rilevare la presenza della parola “movimento” il cui significato è ampio e variegato ma che trovo utile interpretare in accordo con la presenza dell’aspetto politico. Un movimento politico infatti già ha connotazioni abbastanza precise. Di solito condivide delle idee in maniera piuttosto chiara, e si struttura con cognizione di causa su l’unica cosa di cui è fatto, le persone, dando loro importanza fondamentale, formandole, sostenendole, creando una solida rete, che si muove in una stessa direzione.
Al contrario, ciò che osserviamo definirsi antispecismo allo stato attuale dentro il pandemonio animalista è un caotico sottobosco di singoli individui e piccoli gruppi che si incontrano casualmente e raramente, sempre nei pressi di tematiche animaliste, che procedono ognuno per la sua strada, che si dan da fare ciascuno dando più importanza ad un aspetto piuttosto che ad un altro, il tutto senza mai preoccuparsi davvero del mattoncino che costruisce un movimento e il collante che lo mantiene: il singolo individuo e l’unità tra questo e gli altri partecipanti al movimento.
Le persone infatti sono sistematicamente chiamate a fare la loro parte in quanto adulti consenzienti, senza che esista alcuna metodica dichiarata, approfondita o ricercata, su come aumentare, mantenere, fare crescere tali adulti, il loro consenso, ma sopratutto l’unità tra costoro (al contrario si lascia grande spazio ad individualità egocentriche che minano tale l’unità), in maniera coerente, davvero coerente con l’antispecismo.
Il che porta direttamente all’ultimo attributo chiamato in causa dalla “stupida” definizione scritta su wiki. Stupida, perché davvero, non ha richiesto chissà quale intelligenza per essere elaborata, proprio perché così perfettamente evidente, in ogni suo aspetto, giusto compreso l’ultimo, quello culturale.
Tale cardine su cui esprimiamo efficacemente l’antispecismo è relativo al metodo, cioè quello culturale, attraverso cui è possibile diffondere l’antispecismo. Il fattore culturale, considerato vicino a quello filosofico, è per lo più deprecato dal mondo animalista e di conseguenza dalla maggior parte di quegli animalisti che si estendono inadatti all’antispecismo. L’unica attività strutturalmente culturale che viene portata avanti, sempre in maniera coatica, ma talmente costante da apparire organizzata e pensata in ampia scala è indirizzata a promuovere il veganesimo.
In realtà, gli eventi culturali pensati per essere tali orientati all’antispecismo, sono pochissimi perchè pochissimi i soggetti per ora interessati a (o davvero preparati per) pensarli prima e realizzarli poi, vista la scarsissima rilevanza data ad una concretezza che segua un semplice percorso: un’idea (filosofia), un insieme preziosissimo di individui che la adottino (movimento), una intenzione di agire (politica), ed un mezzo potente (cultura).
Per queste ragioni, espresse mi scuso in maniera sicuramente come già detto arrogante e misera, mi schiero dalla parte di coloro – i pochi – che sostengono come l’antispecismo abbia una sua dignità assoluta e che per dimostrarla, per farla emergere, per rivendicarla e diffonderla, serva uscire da quell’ambiente puerilmente animalista nel quale è impropriamente attecchito fino ad ora per rivolgersi ad altri soggetti potenzialmente coerenti e per emanciparsi dall’afflizione della confusione più totale.
Serve prendere le distanze da tutto ciò che infanga l’antispecismo, che lo nasconde, che lo travisa.
Serve decidere chi sale in barca e chi no, per un progetto più grande, quello di un movimento.
Serve capire chi è disposto ad accettare che l’antispecismo è l’antispecismo, e niente altro.

domenica 11 luglio 2010

La visione femminile dell’ecologia - di Paola

La visione femminile dell’ecologia

Il movimento ecofemminista si sviluppa a partire dagli anni ’60 negli Stati Uniti, e si tratta di una concezione che istituisce un parallelismo tra lo sfruttamento delle donne e quello della natura, anzi li considera fenomeni speculari così strettamente legati da non poter essere compresi se non considerandoli congiuntamente, infatti secondo le teorie eco femministe il dominio sulle donne è legato concettualmente e storicamente al dominio sulla natura.

Dobbiamo considerare che la logica del dominio si è imposta a tutti i livelli delle relazioni sociali e personali, nella famiglia, nella politica, nel campo scientifico, nella distinzione fra i generi..insomma nel modo di rapportarci agli altri e con ciò che ci circonda. La logica del dominio implica una visione gerarchica del mondo in una serie di dicotomie: animato-inanimato, vegetale-animale, umano-non umano, maschile-femminile, razionale-irrazionale e così via. Al vertice di questa scala gerarchica regna incontrastata la figura dell’Uomo declinata esclusivamente al maschile. Da un punto di vista femminista la logica del dominio è il prodotto dell’androcentrismo ovvero del valore superiore e quasi assoluto attribuito nei secoli agli esseri umani di sesso maschile, che sarebbe poi l’essere umano per eccellenza, anzi l’unico essere umano degno di tale nome. L’androcentrismo potrebbe essere il risultato della psicologia maschile così come si è sviluppata nella lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione di sé. Una spiegazione convincente è data da Carol Gilligan nel suo “In a Different Voice” nel quale spiega che l’identità di genere, che rappresenta il nucleo immutabile della personalità, rimane stabilmente fissata intorno ai 3 anni di età, età nella quale è prevalentemente la madre ad occuparsi dei figli; ed è per questo che mentre le bambine essendo accudite da persona del loro stesso sesso sono portate a viversi con meno differenziazione, il maschietto deve separarsi dalla madre rinunciando in parte all’oggetto primario d’amore ed al senso di legame empatico. La ragione è la facoltà a cui l’uomo attribuisce la propria superiorità anche nei confronti delle donne cui viene attribuita la prevalenza del sentimento. La ragione viene associata a tutto ciò che è mentale, imparziale, spirituale, oggettivo, pubblico, positivo e quindi maschile, mentre le emozioni sono legate a ciò che è parziale, fisico, soggettivo, debole, privato, opinabile e quindi femminile. Le donne nelle varie civiltà sono state prese in considerazione soprattutto per la loro funzione biologica necessaria alla conservazione della specie. La funzione generatrice della donna, con tutte le sue difficoltà e limitazioni, l’ha sempre avvicinata agli avvenimenti strettamente naturali, l’ha, per così dire, molto più legata rispetto all’uomo alla fisicità naturale dell’esistenza ed ha quindi reso facile e quasi istintivo il suo apparentamento agli animali. Esiste un parallelismo totale fra la convinzione degli uomini di avere diritto a dominare e sfruttare la natura e quella di avere il diritto di servirsi delle donne e non è un caso che la stessa parola mather (madre) abbia la stessa radice etimologica di matter (materia), ossia entrambe sarebbero da utilizzare. Nel suo libro “The Death of Nature” Carolyn Merchant analizza quella che chiama l’associazione millenaria fra donne e natura nell’intero corso della cultura, della lingua e della storia, osservando come questo abbinamento sia stato messo in rilievo da due movimenti sorti quasi contemporaneamente negli anni ’60-’70 ovvero il movimento femminista ed il movimento ecologista. L’idea della natura come madre-nutrice e l’analogo ruolo della donna sono sempre andati di pari passo. Si sono esaltate congiuntamente la capacità riproduttiva e nutritiva della donna e la fertilità della terra, assieme alla sua attitudine a produrre messi ed a creare nel suo grembo, paragonato a quello materno, pietre preziose e metalli rari. La tesi centrale della Merchant è un forte attacco alla scienza moderna ed alla rivoluzione industriale, nonché alla riduzione effettuatasi da Bacone in poi della natura in termini quantificabili, il che ne ha favorito lo sfruttamento. Anche secondo Vandana Shiva, fisica ed economista, direttrice del Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India): “L’immagine di una terra come madre che nutre rappresentava un vincolo culturale troppo forte per il suo sfruttamento, una terra vuota, invece, senza persone, di nessuno, ha permesso agli europei di descrivere le loro invasioni come scoperte, la pirateria e il furto come commercio, lo sterminio e lo schiavismo come missioni di civilizzazione”.

Tra le strategie per superare la subordinazione ai valori maschili o maschilisti figura in primo piano una nuova prospettiva etica, ovvero la così detta etica della cura, tipica secondo il pensiero femminista della natura e della psicologia femminili e per nulla inferiore a quella tradizionale maschile. Qui vorrei fare un piccolo inciso. Le prime rivendicazioni femministe erano orientate ad ottenere pari diritti per le donne, questo perché per molte la discriminazione delle donne era legata al fatto che leggi e consuetudini la ritenessero diversa e quindi inferiore all’uomo. Quindi appariva fondamentale che il movimento di emancipazione partisse dall’eliminare nelle leggi e nei codici di queste differenze. Negli anni il femminismo è cambiato ed a un certo punto non si è più rivendicata la totale uguaglianza fra uomo e donna, ma si è cominciato a rivendicare la differenza fra uomo e donna, differenza che non significa migliore o peggiore..ma semplicemente diverso. Esiste infatti una “voce diversa” che si ritrova nell’esperienza delle donne, questa voce per esempio non si chiede “quali principi debbano essere applicati” ma bensì “che cosa si deve fare in una determinata situazione per preservare ed aiutare i rapporti umani coinvolti”. Questa concezione dell’etica ruota attorno alla comprensione delle responsabilità e delle relazioni intersoggettive, mentre l’etica intesa come giustizia collega lo sviluppo morale alla comprensione dei diritti e delle regole.

La prospettiva della moralità intesa come giustizia e quindi basata sui diritti si basa su tre caratteristiche principali, tutte molto contestate dal pensiero femminista, esse sono: l’autonomia del self, la razionalità e l’imparzialità. Essere autonomi significa essere indipendenti nelle nostre scelte da qualsiasi influenza esterna,..questo può significare essere egoisti, valutare qualcosa solo in base a se stessi e non valutando “l’io” come parte di un “noi” . Con la Razionalità si presuppone una grande separazione fra ragione e passione, là dove la ragione è considerata associata a tutto ciò che è mentale, imparziale, oggettivo e quindi maschile e la passione sono considerate fisiche, parziali, soggettive e quindi femminili. Le femministe sostengono che le emozioni non sono solo un modo di sentire ma anche di conoscere, i valori del soggetto lo spingono verso ciò che è di suo interesse conoscere e lo influenzano nel suo percepire i fatti. E’ perciò assurdo separare nettamente razionalità e passioni. Ed infine l’imparzialità: essere imparziali significa trattare ogni interesse, ogni situazione con uguale interesse e nello stesso modo. Le teorie sull’imparzialità non tengono conto della natura sociale degli esseri umani e penalizzano tutte le attività femminili di caring, del prendersi cura, che sono rivolte ai bisogni specifici dei singoli nelle relazioni interpersonali.

In definitiva le femministe ai tre elementi autonomia, razionalità, imparzialità contrappongono l’interdipendenza, l’importanza dei sentimenti e l’attenzione alle singole situazioni. Questo è il significato, stringato ovviamente, del concetto femminile di etica della cura nel quale la caratteristica fondamentale consiste appunto nell’apertura verso l’altro, nel senso di appartenenza ad una rete di relazioni, nell’idea di non costruire steccati intorno all’io bensì di abbatterli. Trasportando questi concetti al rapporto dell’umano con il resto del mondo, si arriva facilmente a vedere come la terra ed i suoi abitanti non umani, non possano più essere pensati come qualcosa di estraneo da dominare, da usare ma bensì come un tutto di cui si fa parte e con il quale bisogna entrare in armonia. L’idea del caring ovvero del prendersi cura si allarga quindi fino ad abbracciare il mondo vegetale ed animale, senziente e non senziente addirittura fino a comprendere gli ecosistemi, ed in questo modo la riflessione femminista si congiunge all’ecologia. Ma in realtà c’è un motivo più profondo che oltre alla attitudine alla cura spinge il femminismo ad occuparsi della tutela della natura e dell’ambiente: occorre tornare all’origine, e cioè all’idea che sfruttamento delle donne e sfruttamento della natura sono due facce della stessa medaglia e sono dovute all’androcentrismo, ovvero all’assunzione dell’uomo maschio come l’essere superiore a tutto il resto, inferiore al massimo solo di Dio, di cui peraltro l’uomo si dice creato ad immagine e somiglianza. Questa superiorità gli concederebbe automaticamente il diritto al dominio sulle donne, gli animali, la natura, su qualsiasi cosa esistente. Esistono legami fondamentali, storici, di esperienza, simbolici e teorici, tra il dominio esercitato sulle donne e quello esercitato sulla natura, la stessa logica del dominio che viene usata per giustificare lo sfruttamento di vaste categorie di esseri umani non solo nel sessismo ma anche nel razzismo ed in altre forme di soggezione è stata e continua ad essere usata per dominare la natura. Le basi teoriche giustificative di ogni tipo di oppressione sono le stesse e quindi vanno combattute in blocco, perché dipendono tutte la solita causa: se ci si accontenta di contrastare solo una o alcune di queste forme di sfruttamento ma non tutte, il motivo originario ovvero l’androcentrismo, continuerà ad esistere pronto a riproporsi in ogni campo non appena le circostanze lo permettano. Per questo la lotta non può limitarsi a combattere il sessismo, il razzismo, lo sfruttamento degli animali ma deve comprendere tutto compreso preoccuparsi di bloccare il degrado ambientale e la distruzione del pianeta.

Una delle maggiori autrici ecofemmiste, Karen Waren, ha analizzato la cornice concettuale che ha portato alla visione gerarchica del mondo e quindi alle varie distinzioni tra chi sta sopra e chi sta sotto, tra chi ha il diritto di dominare e chi deve subire a causa della propria natura la supremazia altrui. Per cornice intellettuale si intende l’insieme di credenze, valori, attitudini ed assunzioni di base che determinano e riflettono l’idea che ciascuno si fa di se stesso e del mondo in cui vive, in pratica è come una lente costruita dalla società attraverso la quale noi percepiamo noi stessi e gli altri, una lente influenzata da molti fattori quali il genere, l’etnia, la classe, l’orientamento affettivo ecc Una cornice concettuale è oppressiva, cioè da origine a qualche tipo di oppressione, quando spiega, giustifica e mantiene qualche tipo di oppressione, quando spiega giustifica e mantiene delle relazioni di dominio e di sottomissione come nel caso appunto della visione patriarcale che giustifica il dominio dell’uomo sulla donna e sulla natura. Secondo la Warren sono tre le caratteristiche principali della cornice concettuale del patriarcato: la prima consiste nel modo di collocare il valore gerarchico usando la metafora spaziale del sopra e del sotto e ritenendo di maggior valore ciò che sta più in alto; la seconda caratteristica è quella di dividere gli esseri in due categorie che vengono contrapposte l’una all’altra in maniera disgiuntiva ed esclusiva cosicché determinati valori vengono attribuiti solo ad una delle categorie e non all’altra; la terza consiste nell’elaborare una struttura argomentativa la quale permetta la giustificazione del dominio. Questa è la caratteristica più interessante e discutibile perché non si tratta di una struttura logica, anche se ci cerca di farla apparire come tale, in quanto per farla funzionare sono necessarie una o più premesse valutative che vengono sottaciute o non esplicitate. Questo non significa che le strutture argomentative gerarchiche sono sempre sbagliate e da evitare, anzi spesso sono necessarie per classificare ed organizzare dati ed informazioni, ma diventano false e pericolose quando si introducono surrettiziamente delle premesse valutative. L’esempio che fa la Warren è questo:

1) gli esseri umani a differenza degli alberi hanno la capacità di trasformare in maniera consapevole e radicale la società nella quale vivono

2) gli esseri che hanno tali capacità sono moralmente superiori agli altri

3) quindi gli esseri umani sono moralmente superiori agli alberi

4) se un essere è moralmente superiore è giustificato a subordinarlo e dominarlo

5) gli uomini sono moralmente giustificati a dominare gli alberi.

Ovviamente senza l’assunto, non dimostrato e quindi non per forza vero, che sapendo trasformare la società si è moralmente superiori e che una presunta superiorità morale da diritto alla dominazione, non si può giustificare la dominazione dell’uomo sulla natura.

Trasportando l’esempio alla visione patriarcale abbiamo che la superiorità dell’uomo e quindi il suo diritto a sottomettere la donna è giustificato dal fatto, per niente dimostrato, che la natura e fisicità con cui si identifica la donna sia moralmente inferiore alla ragione e l’attività mentale con cui si identifica l’uomo.

Concentrare la riflessione e di conseguenza la pratica di lotta, nei confronti dell’androcentrismo amplia il concetto dell’ecologia profonda che rappresenta il primo passaggio da una concezione antropocentrica ad una concezione biocentrica. Ovvero da una concezione nella quale l’uomo è il centro e la natura, animali non umani compresi, sono ad esso assoggettati e rappresentano per l’uomo una risorsa da preservare in quanto a lui utile ad una concezione dove animali umani e non umani e natura sono parte di una stessa rete dove tutti sono collegati ed interdipendenti fra loro ed è quindi fondamentale ristabilire un rapporto solidale con gli altri animali e la natura. L’eco femminismo introduce l’ulteriore volontà di smantellare alla radice l’ideologia del dominio frutto della psicologia maschilista. Perché parlare solo di biocentrismo senza considerare le differenze di genere significa riaffermare sotto altra veste il patriarcato e quindi riproporre in una veste diversa il solito schema di dominio. In molte espressioni dello sfruttamento animale, che per gli ecologisti profondi andrebbero solo modificate e non necessariamente eliminate, è possibile distinguere i caratteri dell’androcentrismo. E qui si rimarca anche la differenza spesso incolmabile tra gli ambientalisti, anche se fautori dell’ecologia profonda, e gli animalisti. Per esempio per molti ecologisti la caccia è totalmente compatibile con la protezione ambientale, la dove venga svolta nel rispetto della natura e degli ecosistemi è addirittura utile per mantenere un equilibrio fra le diverse specie. Ma è appena il caso di rimarcare che quando la caccia non è svolta per la propria sopravvivenza non è che la rappresentazione tipica dell’affermazione maschilista ovvero l’affermazione della propria forza attraverso l’uccisione di un altro essere. E non è un caso che, anche se i tempi stanno un po’ cambiando, la caccia sia attività tipicamente maschile.

Anche nella vivisezione e nella ricerca scientifica possiamo notare non solo la crudeltà e le sofferenze provocate agli animali, non solo la logica per la quale l’animale possa essere torturato in nome di un non ben identificato e credibile benessere umano, ma possiamo fare anche dei parallelismi tra questa forma di violenza estrema e l’eccessiva medicalizzazione compiuta dalla medicina e dalla chirurgia sul corpo della donna.

Riguardo al mangiare carne l’ecofemminismo è orientato, come meglio spiegherà un’altra compagna, al veganismo, ovvero al rifiuto di nutrirsi prodotti derivati dall’uccisione e dallo sfruttamento degli animali. A parte la considerazione per le condizioni a dir poco tragiche degli animali negli allevamenti e quindi l’estrema urgenza di fermare tutto questo, bisogna considerare due aspetti che accenno solo perché verranno spiegati meglio dopo, ma è giusto per terminare la mia panoramica. Intanto come ci ricordano molte pubblicità “la carne è il vero cibo per i veri uomini” ed in effetti, ora meno perché sono migliorate almeno in occidente le condizioni delle famiglie, ma la carne è vissuta come alimento soprattutto maschile mentre le femmine sarebbero più portate alle verdure. Ma a parte questo, perché poi in realtà per il fatto di trovarci la carne nel piatto siamo tutti colpevoli a prescindere dalle differenze di genere, bisogna notare come la trasformazione di un essere senziente in carne venga effettuata anche a livello linguistico con il risultato di cancellare dal discorso l’esistenza stessa dell’animale che diventa il referente assente esattamente il processo di reificazione che trasforma la donna in oggetto sessuale e quindi a disposizione dell’uomo.

Con questa breve panoramica ho voluto solo dare una alcuni spunti di riflessione e spero di dibattito, spunti di riflessione volti a cercare di individuare la base fondante dell’odierna società, una società fortemente gerarchica e quindi profondamente ingiusta dove la devastazione ambientale, lo sfruttamento di interi popoli e la tortura di miliardi di animali sono talmente radicati e tragici da imporci un completo ribaltamento dell’esistente. Penso che riconoscere nell’androcentrismo e nella logica del dominio che ne consegue il nemico nascosto da abbattere ed al tempo stesso facendolo in un’ottica femminile possa essere una valida chiave di volta.

Comunicazione sessista – comunicazione specista di Ilaria Nannetti

Comunicazione sessista – comunicazione specista

Premessa

La difficoltà più grande quando ci si avvicina alla metalinguistica, e in particolare quando si è costrette ad addentrarsi nell'intricato labirinto della lingua italiana e delle contraddizioni in essa contenute è proprio quello di rimanerne imbrigliate, di diventare nostro malgrado veicoli e strumenti inconsapevoli delle medesime espressioni che si intendono combattere e mettere all'indice, proprio perché ormai talmente radicate e permeate nella comunicazione quotidiana che è un continuo, talora estenuante lavoro tenercene fuori, avvistarle appena prima della loro comparsa. Questa premessa non vuol essere solo un tentativo di giustificare eventuali, anzi più che certi errori, è un modo per avvertire ascoltatrici e ascoltatori che è necessaria una modifica del nostro modo di percepire il linguaggio stesso, una piena consapevolezza dell'uso che ne facciamo, anche quando questo uso continua ad essere discriminatorio, poiché non abbiamo ancora trovato valide alternative linguistiche, o perché non ne percepiamo più gli abusi per l'effetto alienante dell'abitudine.

La comunicazione

Inizierei questo breve intervento sulla comunicazione sessista e specista parafrasando il regista Nanni Moretti che nel 1989, in Palombella Rossa, infastidito da una giornalista che si autodefinisce “alle prime armi” sbottava: “le parole sono importanti!”. E aveva proprio ragione.

Il linguaggio (sia esso verbale o non verbale) è il principale mezzo di comunicazione e di espressione e l’uso, più o meno accorto, più o meno consapevole che ne facciamo, riflette ed influenza inevitabilmente il nostro modo di pensare e di agire: il linguaggio, in altre parole, attraverso la grammatica, le metafore, le scelte lessicali non è mai neutro, ma veicola messaggi (talora nemmeno intenzionali, e di cui spesso dunque l'emittente non è consapevole) che contribuiscono a sostenere l'apparato ben costruito e sedimentato da millenni di uso e consumo dell'ideologia dominante, l'ideologia che perpetua sessismo, razzismo, specismo.

Già nell'ormai lontano 1987 la studiosa del linguaggio Alma Sabatini, nel suo testo “Il sessismo nella lingua italiana” avvertiva lettrici e lettori a proposito dei rischi insiti nelle scelte lessicali: "...l'uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell'atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un'azione vera e propria....". Questo che significa? intanto che la parola è potente: veicola, produce immagini mentali in colui o colei che la ascolta e cristallizza un messaggio in una forma che può contribuire a tenere in vita pregiudizi e stereotipi di genere e di specie, attuando discriminazioni che non sono mai per così dire “innocenti” o indifferenti, ma che rafforzano enormemente la cultura e i valori del genere (e della specie) dominanti.

Il linguaggio sessista

Bisogna immediatamente sottolineare che una quantità di valide studiose e studiosi si è cimentata nell'impresa di smascherare, sottolineare e denunciare il sessismo nei linguaggi[1], avanzando proposte di correzioni e modifiche di questa impostazione linguistica, a partire dalla rivisitazione dell'articolo 3 della Costituzione Italiana. Quest'ultimo, recitando paradossalmente che: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso... di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” cade in contraddizione dichiarando la formale uguaglianza di donne ed uomini, ma utilizzando in senso onnicomprensivo un sostantivo: “cittadini” che non è affatto neutro dal momento che la grammatica italiana lo definisce come “maschile plurale”. Sarebbe pertanto non discriminante l'utilizzo della formula “cittadini e cittadine”, come giustamente suggerisce il gruppo di studio della Casa della Donna di Pisa nel blog “Il sessismo nei linguaggi".

E' piuttosto facile smascherare, a partire da questo semplice esempio grammaticale, le discriminazioni sessiste all'interno della lingua italiana. Prendiamo in considerazione il lessico. Sarà forse superfluo ricordare che esistono, nella lingua italiana, termini riferiti a professioni come medico, chirurgo, ministro, giudice ecc...che non hanno corrispettivo al femminile e che quindi vengono utilizzati indifferentemente per designare entrambi i sessi: già moltissimi anni fa girava un indovinello / barzelletta in cui si ironizzava sull'equivoco creato dal termine chirurgo, che si faceva fatica – chissà perché? - ad attribuire ad un essere umano di genere femminile: in effetti, nell'immaginario collettivo “il chirurgo” è un maschio in camice bianco, nonostante le statistiche ci dicano che più della metà di coloro che si specializzano in chirurgia oggi è donna[2].

Per fare altri esempi mi soccorrono ancora una volta le studiose della Casa della Donna, che hanno inventariato una serie di termini che, se declinati al maschile hanno, nell'accezione comune, un determinato significato, ma che assumono tutt’altra accezione semantica se ne modifichiamo il genere al femminile. Sarà evidente ma al contempo assolutamente importante notare la sfumatura dispregiativa e il richiamo alle attività sessuali che tali termini assumono se volti al femminile. Ne citerò soltanto alcuni tra i più eclatanti:

Cortigiano: gentiluomo di corte - Cortigiana: prostituta
Ragazzo di strada: ragazzo scapestrato - Donna di strada: prostituta
Zoccolo: calzatura in cui la suola è costituita da un unico pezzo di legno - Zoccola: prostituta
Omaccio: uomo dal fisico robusto e dall'aspetto minaccioso - Donnaccia: prostituta
Uomo da poco: miserabile, da compatire - Donna da poco: prostituta
Accompagnatore: pianista che suona la base musicale - Accompagnatrice: prostituta
Uomo di malaffare: birbante, disonesto - Donna di malaffare: prostituta
Buon uomo: probo, onesto - Buona donna: prostituta, deficiente.

Nel linguaggio comune, siamo soliti chiederci, quando osserviamo una creazione artistica qualsiasi, quale ne sia l'autore: ci interroghiamo cioè sulla paternità di un'opera (indipendentemente se l'ideatore sia maschio o femmina). Questo è chiaramente un modo di dire sessista, giacché sarebbe molto più sensato chiederci semmai la maternità dell'opera stessa, poiché in genere si usa metaforicamente il termine partorire (ad esempio un'idea o una creazione...), che afferisce di fatto al genere femminile.

Facciamo un ultimo esempio prendiamo in esame il termine misantropia, dal greco “odio o avversione nei confronti della specie umana” e quello che a torto potremmo ritenere l'omologo e contrario misogenia “odio o avversione nei confronti delle donne”.

Osservandoli con più attenzione notiamo però che il primo termine si riferisce all'odio nei confronti dell'intera specie umana giacché in greco il termine ántropos significa “uomo in senso lato” come specie, mentre il secondo fa riferimento all'odio nei riguardi dello specifico sesso femminile.

E' emblematico notare che il vero contrario del sostantivo misogenia che è misandria (da anér- andrós=uomo) sia comparso nei dizionari (grazie agli sforzi del movimento femminista) solo nel XXI secolo e non prima! Il termine è comunque poco conosciuto e dunque poco usato, come succede per alcuni neologismi non sdoganati dall'uso quotidiano.

Del resto se un concetto o una cosa non hanno un termine per essere designati o definiti non esistono, sono esclusi a livello comunicativo ma anche a livello ontologico: l'odio nei confronti del genere maschile è stato dunque escluso, negandolo, fino al 2000!!!

Notiamo infine queste due metafore di uso piuttosto comune:


Quell'uomo è un toro/ torello: un uomo molto forte – Quella donna è una vacca: una prostituta;

Quell'uomo è un gallo/galletto: bullo, leader all'interno di un gruppo – Quella donna è gallina: stupida e pettegola.

Queste metafore esemplificano il trait d' union che ci conduce verso lo specismo nel linguaggio. Riprenderemo più tardi con un approfondimento maggiore, l'uso delle figure retoriche.

Il linguaggio specista

Abbiamo visto brevemente come il linguaggio sia centrato sull'essere umano di sesso maschile. Adesso sarà necessario fare forse un passo indietro, per comprendere come il linguaggio sia antropocentrico, centrato sull'animale umano (maschio) configurandosi dunque come specista e definendo ancora una volta il solco che la mentalità dominante e dominatrice intende perpetuare tra animali umani e animali non umani.

Pensiamo all'uso dei termini “maschio” e “femmina”, principalmente utilizzati per gli umani anche se non in maniera esclusiva: quante volte si utilizza la formula “il cane”, “il gatto”, “il cavallo”, prescindendo completamente dal sesso dello stesso, considerando quindi come asessuato il soggetto del nostro discorso.

Anche il pronome personale utilizzato per designare un animale non-umano “esso/essa” li configura come assimilabili piuttosto a cose inanimate o vegetali che non ad esseri viventi e senzienti quali sono.

Pensiamo a quante volte utilizziamo o sentiamo parlare in ambito scolastico (ma anche ambientalista e animalista) del “rapporto uomo-animale”[3], dimenticandoci o meglio volutamente marcando le differenze tra le due sfere, quando invece entrambi appartengono al regno animale[4].

Quest'ultimo esempio è particolarmente interessante, perché l'abitudine a separare, a porre l'accento sulle divergenze piuttosto che sulle moltissime somiglianze tra animale umano e non-umano è il primo passo verso la legittimazione del loro collocamento subalterno in una scala gerarchica ancora una volta antropocentrica.

Quindi, proprio come l'uso del maschile uomo per designare tutta la specie umana esclude e ignora di fatto (e non in maniera “innocente” ma calcolata) la presenza femminile all'interno di questo insieme “misto”, così il termine animale utilizzato per tutti gli animali tranne che per l'animale-uomo, esclude, maschera volutamente la similarità biologica e lo oggettifica escludendolo così dai diritti fondamentali, rendendo infine possibile la sua trasformazione in carne. Carne” peraltro – notiamolo – in italiano è termine di genere femminile[5].

Ma analizziamo meglio il caso dell' oggettificazione della donna attraverso la parola. Il passaggio che facciamo quando della donna vengono evidenziati i tratti muliebri, le parti del corpo “femminili”, quando la donna attraente diventa metaforicamente “appetitosa” “un buon bocconcino” per il maschio affamato di sesso è proprio quello di smembrare e associare la donna e le sensazioni che nell'uomo scaturiscono nel fruire del suo corpo a quelle derivanti dal cibo.

Parallelamente, con i termini “fettina”, “bistecca”, “svizzera”, “scaloppina” ecc... la verità riguardo alla morte e alla macellazione dell'animale non-umano è sottaciuta, assente, mascherata. Il referente animale non esiste più, rimane la sua versione trasformata e adatta al consumo. Considerando che spesso l'unica “relazione” con l'animale non umano di cui gli animali umani fanno esperienza è proprio al momento del pasto, consumando le sue carni, la cancellazione dell'identità dell'essere di cui si cibano è completa.

Notoriamente infatti molti bambini (e non solo) che vivono in città, non hanno la più pallida idea di “chi” sia la bistecca che hanno nel piatto; non fanno alcuna associazione mentale con l'animale vivo, anche perché spesso non lo hanno mai visto nel loro ambiente naturale, ma magari solo attraverso lo strumento mistificatore per eccellenza che è la pubblicità in televisione. Quindi l'equazione è risolta: nessun contatto uguale nessuna conoscenza; nessuna conoscenza uguale nessuna possibilità di empatia; nessuna empatia uguale nessuna forma di compassione.

In questo modo tanto la donna quanto l'animale non umano diventano referente assente, non compaiono sulla scena anche se si parla di loro, ma, paradossalmente, perdono come di corporeità proprio nel momento in cui il loro corpo è utilizzato, violato e “sbranato”, tanto nella comunicazione linguistica quanto nella realtà. Non concedendo loro più l'integrità corporea non si attribuisce loro più neanche una identità.

In inglese il termine “meat” = carne è generico, così come l'italiano “carne” e quindi è logico (ma ingiusto) domandarsi non già “chi” ma “cosa” si è mangiato; è tipico chiedere del pollo o del tacchino “una coscia”, “un'ala”, come del bovino “la spalla”, “l'anca” ecc... scomponendo in tal modo l'animale e privandolo quindi della sua dignità: quello che si mangia non è più il singolo animale morto ma una parte di esso. Lo si parcellizza per proteggerci emotivamente dalla verità. Comprare carne o frutta nella percezione comune diventa la stessa identica cosa: 3 kg di mele e 1 Kg di arrosto. Nessuna differenza. Nessun richiamo alla vita.

La carne diventa dunque un simbolo di ciò che non si vede pur essendoci: il controllo patriarcale sugli animali non umani e sul linguaggio.

Parafrasando Maud Russell Lorraine Freshel (detta Emarel dalle iniziali del nome) (1867—1949) attivista vegetariana di Boston: “Se le parole che dicono la verità sulla carne come cibo non si addicono ai nostri orecchi – cioè istillano in noi un senso di colpa o di disagio – ciò significa che la stessa carne non si addice alla nostra bocca”. In altri termini - diremmo in linguistica - è necessario che il significante (la fetta di carne) riacquisti il suo vero significato (animale ucciso e macellato).

E' vero che in teoria siamo oggi molto più lontani dalla secentesca teoria cartesiana che definiva gli animali non umani come mere macchine: oggi anche molti onnivori, magari possessori di animali (ed uso provocatoriamente questo termine![6]) di cani e gatti si indignano al pensiero che l'animale non umano cui sono affezionati sia definito come un insieme di ingranaggi privo di qualsiasi emozione. Eppure la maggioranza non si scandalizza affatto quando lo stesso trattamento è riservato ad altri animali definiti “da carne”, “da latte”, “ovaiole”, “da compagnia” come se la loro vita fosse in funzione dell'animale-uomo. Si nega, si rimuove la loro sofferenza per assolversi dalla colpa.

Metafore e sessismo

Già a partire dalle favole di tradizione classica (Esopo e Fedro) si stereotipavano (spesso distorcendole o comunque forzandole) le presunte caratteristiche di alcuni animali non umani (volpe, lupo, agnello ecc...) filtrate attraverso l'occhio umano, per far riferimento ad altrettanti “tipi” umani. La rappresentazione di alcune peculiarità fisiche, ma soprattutto l'indole di alcuni animali non umani sono entrate quindi da secoli a far parte dell'immaginario collettivo tanto da dare vita a metafore ed altre figure retoriche di significato che tendono ad affibbiare illecitamente agli animali non umani caratteristiche che non hanno e che sono invece proprie dell'essere umano, banalizzandone e stereotipandone gli atteggiamenti come se fossero tipici di una determinata specie e non già individuali.

Gli esempi sono infiniti: si passa da quelli più comuni: “furbo come una volpe”; “sano come un pesce”; “ stupido come una gallina/pollo”; “ignorante come un asino”; “sporco come un maiale”. Siamo così assuefatti all'uso di queste similitudini che sono entrate a far parte dell'abitudinario linguaggio quotidiano, tanto che quasi non ce ne rendiamo più conto.

Parallelamente, quando ci vogliamo riferire alla strumentalizzazione di esseri umani o alla violenza da questi subita, ugualmente ci riferiamo agli animali non umani: “sgozzato come un maiale”; “usato come cavia”; “stipati come sardine/bestie al macello”; “morire come un cane” o il generico “trattato come un animale/una bestia” oppure ancora “comportarsi come un animale” in riferimento alla brutalità, alla crudeltà o alla sporcizia).

Se la composizione del linguaggio è dunque fondamentale perché è una sovrastruttura mentale attraverso la quale interpretiamo la realtà non è possibile non rendersi conto di quanto esso stesso sia strumento di straniamento e parallelamente di oppressione nei confronti di esseri viventi non umani. Infatti dire ad esempio: “eravamo stretti come su un carro bestiame” presuppone che si ritenga giusto e appropriato per l'animale non-umano in questione un trattamento siffatto, ma che si usi tutt'altro metro di giudizio per misurare un analogo trattamento sull'essere umano. Insomma: due pesi e due misure.

Stesso dicasi delle ingiurie, delle offese, in cui abitudinariamente, sempre attraverso metafore, sono implicati animali non-umani[7]. Ad esempio: “figlio di troia” dove il termine “troia” significa “scrofa” , appellativo – per inciso – riferito solo ovviamente agli esseri umani di sesso femminile. Analogamente, “maiala” e “vacca” indicano entrambe la prostituta, uno di quei termini che non hanno corrispettivo al maschile, e che, guarda caso, nella loro accezione dispregiativa, sono infatti associati ad animali non umani che hanno una valenza solo in quanto divengono carne.

Notiamo anche che quando l'animale non-umano è morto naturalmente o comunque non ucciso dall'essere umano è definito con il termine carogna, che, riferito all'indole umana, ha accezione dispregiativa.

Non dovremmo invece, al contrario scandalizzarci dell'utilizzo di parole ritenute appannaggio della specie “umana” come olocausto, campi di concentramento e campi di sterminio riferendoli alla condizione e al massacro di animali non umani nella moderna industria dell'allevamento. Non farà male ricordare come prima cosa che il termine “olocausto” significa originariamente «sacrificio di animali bruciati interamente» e quindi è stato applicato al genocidio ebraico solo successivamente. Come seconda osservazione non dimentichiamo che la metodica dello sterminio degli Ebrei durante la Seconda guerra Mondiale si ispira direttamente alle tecniche di soppressione di massa dei bovini inaugurate negli Stati Uniti nella seconda metà dell’800. Infine sottolineiamo che un filosofo del calibro di Theodor Adorno, della scuola di Francoforte, non ha esitato ad affermare che: "Auschwitz inizia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali"

Uso ossimorico dei termini

Tra le figure retoriche un posto di spicco assume l'ossimoro, dal greco “dolce e amaro” usato curiosamente in senso sessista e specista. Vediamo alcuni esempi.

Il termine stupro è spesso definito in italiano come violenza carnale; in inglese la traduzione letterale di forcible rape è stupro violento. Nel primo caso si associa un termine decisamente negativo “violenza” ad uno dalla valenza positiva, in quanto richiama la sensualità e – guarda caso – la carne: “carnale”; nel secondo caso si utilizza l'aggettivo “violento” per caratterizzare un atto che di per sé stesso dovrebbe richiamare violenza: come se si ritenesse possibile l'esistenza di uno “stupro nonviolento”!!!. In tal modo si attenua la valenza negativa del termine “stupro”, edulcorando di fatto la crudeltà insita nel termine.

Analogamente, l'ossimoro “macellazione umanitaria” associa ad un atto crudele e violento “macellazione” l'aggettivo “umanitaria”, allo scopo di rendere più accettabile o meno condannabile il fatto in sé, come se, appunto, assurdamente, stupri o macellazioni potessero essere talora meno crudeli, cosa che è evidentemente una mistificazione della realtà.

Notiamo ancora una volta che in entrambi i casi, il referente, donna o animale non umano che sia, è assente e si pone invece l'attenzione sul concetto, senza focalizzare invece il soggetto.

Sarà dunque adesso chiaro che c'è uno stretto collegamento tra specismo (nella forma ad esempio del consumo di corpi/carne), sessismo (e ovviamente, ma qui non c'è spazio per approfondire, anche razzismo e omofobia): tutti i referenti di queste forme di odio sono oppressi e discriminati, anche a livello linguistico oltre che naturalmente nei fatti.

Tuttavia sarà opportuno notare che c'è un gap enorme tra le forme di oppressione riservate alle persone e le modalità attraverso cui queste ultime opprimono e sfruttano gli animali non-umani: gli esseri umani infatti di norma non consumano corpi di altri esseri umani.

Eppure forse ci è sfuggito qualcosa per cui non farà male ricordare che le cose non stanno proprio così, se è vero che uno stupro viene consumato, proprio come si consuma la carne di un animale non umano. Donne e animali ancora una volta accomunati nella medesima sorte.

Vorrei concludere con Carlo Levi che se è vero che “le parole sono pietre” è tempo che le pesiamo, che siamo resi pienamente consapevoli dell'uso che ne facciamo, per non renderle fardelli, per non farle continuare ad essere strumenti di oppressione.

Bibliografia

- Sabatini, Alma: Il sessismo nella lingua italiana,Ist. Pol. Zecca dello Stato, Roma 1987.

- Adams, Carol J.: The Sexual Politics of Meat: A Feminist-vegetarian Critical Theory, 20th Anniversary Edition

- Arcangeli, Massimo: La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto (articolo pubblicato nel 2004 su Italianistica online, portale di informatica umanistica
per gli studi italianistici).

- Singer, Peter: Liberazione animale ed. Il Saggiatore, 2004

- Liberazioni – rivista di critica antispecista, Antologia n°1 2005-2008

- Sharp, M.R.L. (più tardi Freshel) The golden rule cookbook: six hundred recipes for meatless dishes. Cambridge Mass.: The University Press, 1908

- Bonnardel, Yves: «E se l'umano valesse quanto l'uomo?» Antisessismo e antispecismo: resoconto di un dominante (articolo apparso nella raccolta di articoli Nouvelles approches des hommes et du masculin, a cura di Nicky Le Feuvre e Daniel Welzer-Lang, edizioni Presses universitaires du Mirail, 2000).

http://ilsessismoneilinguaggi.blogspot.com

www.ecologiasociale.org


[1]Intendendo linguaggio verbale, ma anche non-verbale: basti pensare al linguaggio iconico della segnaletica stradale, che spesso utilizza simboli connotati al maschile.

[2]L'indovinello suonava pressappoco così: “In un incidente stradale sono coinvolti padre e figlio. Il padre muore sul colpo, mentre il figlio viene trasportato d'urgenza in ospedale. Alla vista del ragazzo, il chirurgo che avrebbe dovuto operarlo si rifiuta dicendo: «non posso operarlo perché è mio figlio». A questo punto si chiedeva quale fosse l'identità del chirurgo, e in genere gli interlocutori si arrovellavano sulle varie e più assurde possibilità, quando la risposta era in realtà ovvia: il chirurgo era semplicemente la madre del ragazzo.

[3]Incidentalmente, questa espressione, è emblematica perché racchiude al suo interno un termine spiccatamente specista: “animale” e contemporaneamente uno sessista: “uomo”.

[4]Meglio sarebbe usare l'espressione: “l'essere umano e gli altri animali”.

[5]Inoltre sarà utile ricordare che molti tra gli animali consumati e sfruttati per la loro carne, il loro latte e le loro uova, sono, naturalmente, di genere femminile.

[6]Non dovremmo infatti considerarci proprietari di esseri senzienti non umani proprio come non lo siamo dei nostri figli!

[7]Spesso di sesso femminile.