giovedì 31 maggio 2007

Diritti animali... tra filosofia e azione di Lorenzo

Chi affronta il tema dei diritti animali in un’ottica di confronto tra le principali posizioni storicamente espresse, impara ben presto a conoscerne i due principali filoni: quello derivante dal pensiero utilitaristico di Bentham e quello che potrebbe ricondursi al concetto di imperativo categorico di Kant.
Perché scomodare tali nomi, che credevamo rilegati per sempre nei polverosi libri del liceo, per affrontare un argomento così apparentemente moderno come quello dell’antispecismo?
In anni recenti, l’australiano Peter Singer con il suo libro “Animal Liberation” ha affrontato la questione del rapporto tra uomini e animali prescindendo da ogni considerazione sui "diritti" di questi ultimi e rifacendosi dichiaratamente alla corrente utilitaristica: l’azione dell’uomo deve essere volta all’ottenimento della maggior soddisfazione possibile di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli degli animali (o, per dirla con Singer, degli “animali non umani”). Interessi che sussistono in considerazione della capacità di tutti gli esseri senzienti di provare dolore. Fondamentalmente questo approccio condanna lo specismo insito nell’etica fino a quel momento accettata: infatti si debbono considerare gli interessi non solo della specie umana, ma anche degli altri animali che, nella maggior parte dei casi, sono più simili alla specie cui apparteniamo più di quanto comunemente si creda.
L’approccio concorrente è quello esposto da Tom Regan nella sua monumentale opera “The case for animal rights”: i diritti animali sono assoluti ed incondizionati (concetto kantiano, ma che fino ad ora era stato riferito solo all’uomo), al di là di ogni considerazione in merito all’utilità collettiva. In un certo senso è una posizione più estrema di quella di Singer o, se vogliamo, ne potrebbe rappresentare l’interpretazione più radicale.
Entrambi gli approcci convergono nel condannare ogni forma di sfruttamento che l’uomo compie sugli animali: allevamento, vivisezione, caccia. In ogni caso è stata l’opera di Singer, forse perché più accessibile e divulgativa, ad aver aperto la strada ai vari movimenti degli attivisti dei diritti degli animali.
Un’annotazione di non poco conto: sia Singer che Regan seguono un’alimentazione vegan. Mi piace pensare che la coerenza sia ancora un valore.
Lorenzo

"Ma cosa mangi, erba?" - Sopravvivenza vegan in un mondo carnivoro - di Lorenzo

“Ma cosa mangi, erba?”. E’ la domanda che immancabilmente ogni vegan, a tavola, sente rivolgersi dai commensali dopo aver rivelato loro la propria scelta alimentare. La domanda è invariabilmente preceduta, nell’ordine, da questo tragicomica sequenza di domande:
“Sei Veg… che? e che cos’è?” - (si comincia bene…);
“Ok, non mangi la carne, ma il pesce lo mangi?” - (il dualismo carne-pesce emerge sempre nella mente dell’onnivoro, sembra che proprio non riesca ad andare oltre);
“Cosa? Non mangi nemmeno latte, formaggio, uova?” - (con il terrore negli occhi). Segue, pronunciata con sorriso ironico di commiserazione, la fatidica battuta sull’erba. Mah!
Quando, nel 2006, ho iniziato a seguire un’alimentazione di tipo vegano, mi sono quasi subito reso conto di due cose: la prima, che sarebbe stato entusiasmante cambiare in modo radicale le mie abitudini alimentari; la seconda, che sarebbe stato frustrante provare a far capire agli “altri” le ragioni della mia scelta.
Chi condivide con me lo stile di vita vegan sa a cosa mi riferisco: trovare informazioni nutrizionali e ricette di prodotti di origine esclusivamente vegetale, nell’epoca dell’informazione e di internet, è alla portata di tutti; i prodotti stessi, poi, sono reperibili comunemente nei supermercati e non si discostano, nella gran parte dei casi, da quelli di cui l’uomo si è sempre cibato. Tutto semplice allora, si direbbe. Tutt’altro.
Chi è vegan sa che, nel corso della giornata, dovrà comunque sempre rendere conto agli altri della propria scelta. La società non perdona la scelta vegan. Fondamentalmente, la teme. La condanna e la osteggia, prima ancora di conoscerla. Non ci si illuda che possa capirla, salvo rare eccezioni.
Il primo ostacolo: i familiari. Con loro si condividono, normalmente, i pasti. Provo invidia per le famiglie in cui tutti i componenti abbracciano e condividono l’alimentazione vegan. Più frequenti sono i casi in cui le diverse scelte alimentari in famiglia diventano motivo di incomprensione e di scontro. Spesso anche di scontro generazionale. Il classico esempio è il figlio o la figlia aspirante vegan che rivendica in famiglia le ragioni della propria scelta alimentare. Ben difficilmente i genitori, legati ad una cultura tradizionale che vede nel consumo di carne, pesce, latte ed uova un elemento imprescindibile per ottenere benessere e salute, sono disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni e a permettere che il figlio compia quello che ai loro occhi appare come un grave errore alimentare.
Supponiamo pure che viviate da soli. Oppure che la vostra sia una felice e sana famiglia vegan. Oppure, ancora, che siate riusciti ad adattarvi in una famiglia non vegan, senza scendere troppo a compromessi, facendo accettare la vostra “diversità”. Ci saranno comunque innumerevoli altri ostacoli nella vostra giornata.
Siete costretti a mangiare fuori casa nella pausa-pranzo lavorativa? Diventa indispensabile organizzarsi la sera precedente per portarsi il pranzo da casa. Le altre soluzioni sono difficilmente praticabili. Soprattutto, preparatevi a sentirvi esclusi e derisi dai colleghi più sadici, che vi descriveranno con dovizia di particolari il gusto della bistecca rigorosamente al sangue che hanno mangiato.
Anche per gli spuntini fuori pasto diventa indispensabile un certo grado di autonomia. Se fortunatamente il vegan è abbastanza insensibile alle tentazioni del marketing alimentare proposto dai vari bar, è pur vero che bisogna essere pronti a fronteggiare gli attacchi di fame improvvisa. Abituatevi a portare con voi una barretta di semi di sesamo. Non sperate di trovare aperto un fornaio che vi venda una sana e calda focaccia con olio di oliva. Raffinatezze che ormai appartengono ad altre epoche!
Passiamo alle cene al ristorante con amici o colleghi. Affinché non si trasformino in un incubo, e non tremiate di fronte ogni portata che vi serviranno nel dubbio che possa contenere derivati animali, è consigliabilissimo ricorrere all’espediente più classico e subdolo che il vegan conosca: quello di far presente al cameriere, e soprattutto al proprietario, la propria grave allergia a tutti i derivati animali. Elencateli tutti, per carità: non sapete quanta ignoranza incontrerete nei vostri interlocutori che pure lavorano nel settore della ristorazione. E specificate il forte rischio per la vostra incolumità nel caso in cui accidentalmente doveste ingerire una piccola quantità di prodotti animali. Funziona. Garantito.
Causa di imbarazzo ed incomprensioni sono anche gli inviti a casa di amici. Con ogni probabilità vi troverete costretti a rifiutare buona parte di quanto vi verrà offerto in pasto. Informatevi su cosa esattamente vi viene offerto. Chiedete con insistenza e con domande precise: è incredibile constatare quanti ingredienti non vengono elencati in un primo momento. “Ma come? Nemmeno quello mangi?”: quante volte lo ascoltiamo!
Questa società non è fatta a misura di un vegan. E’ una società, invece, che incoraggia ed invita ad un consumo smodato di prodotti di origine animale. Lo fa per motivazioni culturali e storiche. Ma lo fa soprattutto per ragioni di tipo economico e commerciale.
Il business che soggiace allo sfruttamento animale è enormemente superiore a quello derivante dalla produzione agricola strettamente destinata all’alimentazione umana. Si precisa “strettamente destinata alla alimentazione umana” perché, qualora non ci abbiate mai riflettuto, è bene considerare che una porzione considerevole della superficie coltivabile del pianeta è destinato a coltivazioni finalizzate a produrre mangime per animali. Animali che saranno allevati, reclusi, ingrassati, torturati e macellati. Il tutto con uno spreco enorme di risorse per il pianeta. Con la stessa quantità di terra che serve, attraverso la produzione di mangime per il bestiame, a produrre un chilo di carne, sarebbe possibile ottenere una quantità circa dieci volte superiore di cereali o legumi destinabili direttamente all’alimentazione umana. Ancora più allarmante è la considerazione in merito all’enorme spreco di acqua imputabile all’allevamento. Parlo di business dello sfruttamento animale in senso molto lato. Vi è la grande ricchezza legata all’allevamento, alle cure veterinarie, al trasporto degli animali vivi, alla macellazione, al confezionamento della carne, alla vendita della stessa. Per non parlare, inutile nasconderlo, del business farmaceutico e delle cure mediche per le patologie che maggiormente affligono la moderna società occidentale, prime fra tutte le malattie cardiovascolari e i tumori, che come è ormai noto sono strettamente collegate al consumo di carne e grassi animali.
Lorenzo

martedì 1 maggio 2007

Premessa - di Eva Melodia

Siamo forse giunti in un’era di dati finalmente contabili. Un epoca in cui finalmente possiamo fare due somme e rapportarci ai risultati ottenuti in millenni di attività umana sul pianeta terra.
Grazie ad un sistema mediatico patetico e allarmista, incapace di fornire una visione semplice ed attendibile della realtà che ci circonda, è l’era del panico di fronte al conto che dovremo saldare.
Il rischio è però, che come quasi sempre accade, la nostra attenzione si rivolga semplicemente al tentativo di rimediare agli effetti devastanti in atto, piuttosto che rimuoverne le cause scatenanti.
Qui deve quindi entrare in gioco la volotà personale, l’intuito, la determinazione di tutti coloro che non credono più al buon governo e vogliono capire veramente cosa stia accadendo, perchè, stando a quanto ci dicono gli organi di informazione, antenne di trasmissione mediatica del potere, si tratta appunto solo di trovare soluzioni, in fretta, e di continuare per la nostra strada, mentre un numero sempre maggiore di persone ha il sentore da tempo che non sia affatto così semplice.
Negli ultimi anni, a fronte del duro impatto con la realtà, (quello che ci dice da anni che le foreste amazzoniche stanno scomparendo, che la siccità scatenerà grandi apocalissi, che immensi territori preziosi per l’umanità come l’Iraq) saranno non fruibili per secoli a causa dell’inquinamento post-bellico, lo scenario di lotte tra gli uomini per il controllo dell’acqua e delle risorse energetiche, etc... etc...), sono nate diverse correnti di pensiero, cioè analisi logiche di questi problemi che mirano a spiegarne ed a rimuoverne le cause.
Tra queste correnti, spicca l’antispecismo.
Erroneamente molti pensano che questa “filosofia”, sia una base teorica estremizzata inerente l’animalismo e con la quale gli animalisti motivano le loro scelte ideologiche, ma appunto non è così.
Basta usare un po’ di logica per comprendere che l’antispecismo, idea che nega una diversa “valorizzazione” di una specie rispetto ad un’altra, comporta (sempre "per logica") altre considerazioni a catena che impattano su ogni aspetto della vita di un essere umano, tanto da divenire vera e propria filosofia di vita, attraveso la quale misurarsi e rapportarsi a tutto ciò che ci circonda.
Grazie all’antispecismo, l’uomo viene deallocato dalla sua secolare posizione di regnante sulle altre forme di vita e se perde il suo dominio allora viene meno anche il dominio sull’ambiente perchè lo deve rispettare in quanto patrimonio da condividere.
Il benessere dell’uomo diventa finalmente parte integrante del benessere del suo habitat e viceversa e la relazione con altre specie animali, il termometro con cui misurare la capacità di un uomo di dare valore alla propria esistenza e a quella degli “altri”, ambiente e animali compresi.
Se si accetta la negazione della specie umana come legittimo e sensato dominante su altre specie viventi, tanto più la si accetta quando si tratta di conflitti tra esseri umani. Nessun uomo ha diritto di dominio su altri.
Se si accetta la suddetta negazione, si comprende che l’uomo fa parte di un equilibrio da proteggere, dove non c’è specie che possa fare da parassita ad un’altra, e dove essere “umani” ha l’unico vantaggio di poter comprendere la meraviglia di questo equilibrio potenzialmente perfetto.
E ancora, si rifiuta all’origine ogni forma di inquinamento e sfruttamento della terra, dell’acqua, dell’aria, degli uomini, dei bambini, di cani, gatti, topi, insetti, tigri, regioni, terre di nessuno, o altri pianeti. Ma sopratutto si rifiuta ogni forma di violenza e sopruso.
Questa corrente di pensiero fatica ad emergere perchè appunto percepita come una “motivazione animalista”.
A noi il compito di farla uscire da questo bozzolo, questa crisalide, perchè possa volare ovonque in questo nuovo millennio e apportare grandi cambiamenti. Perchè un altro uomo è possibile.
A noi l’arduo compito di mettere in relazione i fenomeni quotidiani con la coerenza e la logica antispecista.
A noi il compito di dimostrarne la validità, confutandone l’aspetto “emotivo” e dogmatico, e rendendone visibile e fruibile per i più, l’innegabilità e il fondamento, usando le parole e la logica che sono il nostro unico grande mezzo di rivoluzione.

Eva Melodia

Animalismo / Antispecismo: Una questione politica - Paolo Rimoldi

Come è risaputo, gli animalisti sono nervosi, litigiosi, impulsivi, istintivi e spesso non solo si discute animatamente sul modo di vedere e di vivere l’animalismo, ma il confronto diventa anche motivo di fratture e litigi che oltre ad essere dolorose, sono nocive per il movimento e quindi per gli animali stessi, che non potendosi difendere da soli dalla tirannia umana, hanno bisogno di noi e di un movimento forte e compatto, unito se non altro sulle cose fondamentali e sulle basi elementari, esattamente il contrario di quello che spesso accade.

A mio modo di vedere, questo continuo litigare e dividersi, ha varie cause:

1) Motivi politici, o presunti tali.

2) Frustrazioni personali a volte dovute alle inevitabili sconfitte animaliste.

3) Incapacità di dialogare e confrontarsi serenamente.

4) Presunzione di essere un gradino più in alto di altri.

5) Mancanza di un obbiettivo preciso.

6) Mancanza di concentrazione sull’obbiettivo da raggiungere.

7) Mancanza di lealtà verso gli altri membri del movimento.

8) Superficialità nel dare giudizi, spesso affrettati o su cose riportate da altri.

9) Invidie o gelosie personali.

10) Manie di protagonismo.

Ognuno interpreta la battaglia animalista a modo suo e a proprio uso e consumo, filtrata dalle proprie ideologie, dalle proprie convinzioni o “appartenenza politica“, dalle proprie esperienze personali, ed altro. Questo è normale ed accade in tutte le attività umane, solo che per quanto riguarda l’animalismo, non essendoci definizioni, limiti, progetti comuni, ognuno si sente “in diritto” di pretendere che gli altri animalisti si conformino alle proprie convinzioni personali.

Questo secondo me, non solo è sbagliato, ma anche pericoloso per gli animali, i quali non hanno bisogno che gli animalisti siano politicamente uniformati o di essere schierati in un unico partito, ma di gente motivata e pronta a mettere impegno, passione e coraggio, per chiedere ed ottenere per gli altri animali non umani quei diritti minimi ed essenziali che possano col tempo portare alla liberazione dalla schiavitù e dalla tirannia dei nostri simili.

Secondo me non è importante l’appartenenza a questa o quella associazione, come la militanza o meno in un qualsivoglia partito politico, ma la condivisione degli stessi ideali animalisti ed obbiettivi comuni. Su queste basi, ci si può unire anche solo di volta in volta per raggiungere un preciso obbiettivo, senza per questo dover essere tutti amici o andare a mangiare tutti assieme.

Al meeting di Bologna dello scorso settembre ad una mia domanda, in cui chiedevo che mi venisse data una volta per tutte una definizione precisa di “animalismo” da parte di quello che si autodefinisce o che tutti riconoscono come il “movimento radicale“, è uscito di tutto, (evidente la confusione) ma poi alla fine si è optato per questa tesi: l’animalismo è un termine generico che racchiude tutti gli amanti di animali, anche solo di alcune specie di animali. Di conseguenza animalista può essere anche chi pur non essendo antispecista si occupa in qualche modo di animali, tipo canari o gattari che vanno in canile o a dar da mangiare ai gatti con la pelliccia, oppure che mangiano altri animali senza sensi di colpa. Tenendo buona questa definizione, la battaglia che abbiamo fatto noi del collettivo contro quelle associazioni che si definiscono animaliste, ma poi fanno le loro feste offrendo cadaveri di animali, sarebbe stato tutto un errore: loro sarebbero comunque animalisti, anche se non antispecisti e quindi dovremmo chiedere scusa per il danno d’immagine arrecato loro e lasciare che continuino a cucinare impunemente le loro salamelle. E’ chiaro che non mi trovo assolutamente d’accordo con questo modo di pensare. Anzi penso che sia il modo peggiore per far passare il nostro messaggio. Per gli aguzzini è il massimo, sapere che c’è in circolazione “bravi animalisti”, quelli moderati, che li lisciano vivere in pace senza rompere troppo le scatole: che si occupino di cani e gatti abbandonati e li lascino continuare a macellare, cacciare, torturate in santa pace.

Questo, non significa affatto che non si deve avere un dialogo costruttivo con chi ama solo cani o gatti, ma che anzi si deve continuare a seminare in queste persone il seme del vero animalismo, cioè l’antispecismo. Anche perché chi ama anche un solo tipo di animale, ha probabilmente una sensibilità giusta per poter capire e fare il salto giusto.

Ma tornando al meeting di Bologna, il termine da usare per definire un vero animalista è “antispecista” e dato che l’antispecismo è l’altra faccia dell’antirazzismo, chi difende i diritti animali, deve difendere i diritti degli umani e quindi non c’è liberazione animale senza la liberazione umana, o meglio di quegli umani oppressi e più sfortunati. Poi non si deve dimenticare la liberazione della terra, naturalmente la liberazione delle donne ecc...

Tutto questo è giusto, sia ben chiaro! Una visione olistica della sofferenza dei più deboli e degli oppressi della terra e una difesa dell’ambiente naturale è positivo e corrisponde alla mia visione della vita. Però non sono più d’accordo con questa definizione quando mi si dice che l’animalismo è altra cosa, e questo perché (io penso) non si riesce a trovare altra giustificazione per escludere chi è animalista vero, antispecista e vegan, ma non si ritrova in tutto e per tutto in una visione politica generale preconfezionata per chi voglia vivere un animalismo radicale. Per me l’animalismo è anche antispecismo ed è ovvio che un antispecista è anche antirazzista, ed è anche ovvio che un gattaro o un canaro non è necessariamente animalista. Però non credo che per forza di cose un animalista si debba occupare necessariamente degli umani oppressi o meno fortunati. Per me è sufficiente che si occupi degli altri animali, che sono e restano i più deboli ed oppressi in assoluto. Agli umani, anche ai più deboli, anche a quelli dimenticati, che muoiono di fame, sotto i bombardamenti, ecc.. anche a loro, viene comunque, sempre riconosciuto il diritto alla vita, a non essere torturati, mangiati, almeno in teoria, anche se poi in pratica la barbarie umana colpisce sempre i più deboli e la palestra spesso avviene sugli altri animali. Per rendersene conto non si deve andare in Africa o in Palestina, basta guardare la notte vicino a casa nostra, dove le moderne schiave, le prostitute minorenni, sono costrette a battere per ore ed ore al freddo, sottoposte ad ogni tipo di minaccia e punizione se si rifiutano di vendere il loro corpo per arricchire i loro aguzzini. Chi interviene? Chi fa qualcosa? L’indifferenza è totale, come l’indifferenza è totale verso gli animali torturati dagli scienziati, gli animali allevati per pelliccia o per scopi alimentari. Finché si continuerà a macellare animali, a mangiarli, vestirsi con la loro pelle, le guerre e le barbarie sugli altri esseri umani non avranno fine.

E’ quindi chiaro che se esiste un animalista che va in giro a picchiare estracomunitari, questo non è più mio amico, ma ci vogliono le prove, non ci si può basare sempre sul sentito dire, su fatti riportati. Fino a prova contraria chi è animalista/antispecista è potenzialmente una persona sensibile anche verso la sofferenza di altri esseri umani. Questa è la mia convinzione, e spero vivamente che non sia la mia ingenua illusione.

Sono istintivamente e quindi profondamente contro ogni sopruso, sfruttamento, sia di altri esseri umani che di altri animali. La guerra mi fa orrore, la tortura ancora di più. Sono contro ogni pena di morte e vedendo Saddam in TV condannato alla pena per impiccagione provo pena per lui, anche se ha commesso tutte le atrocità di questo mondo non sopporto che ora qualcuno decida di mettergli una corda al collo e farlo soffocare a morte. Però se un altro animalista la pensa in modo diverso non lo considero meno animalista solo per questo, non pretendo che ora tutti quelli che leggono la devono pensare come me solo perché io la penso in questo modo, o peggio ancora perché il mio partito il mio gruppo politico la pensa in questo modo. Quello che vedo e che mi rattrista è più delle volte un bieco tentativo di politicizzare l’animalismo, ciò è molto pericoloso perché pretendere che l’animalismo sia parte integrante di un partito o schieramento politico, significa ridurne l’azione e rendere la battaglia animalista a uno dei tanti obbiettivi di quel partito, di solito l’ultimo in fatto di importanza e quindi mai prioritario. Tutto ciò non porterà mai a nulla di concreto per gli animali, ma solo molte promesse per attirare i voti degli animalisti illusi. Quello su cui destra e sinistra sono perfettamente d’accordo è continuare a sfruttare e torturare i nostri fratelli animali. Non mi pare di aver ancora visto un partito Italiano, sposare le nostre idee animalista/antispeciste. Quando vedrò nei programmi di qualche partito: l’abolizione della vivisezione, l’abolizione dei circhi e zoo e spettacoli con animali, l’abolizione della caccia e pesca, l’abolizione di qualsiasi allevamento e importazione di animali per consumo umano, la chiusura dei macelli, ecc.. allora questo sarà il mio partito, allora e solo allora ci sarà un gruppo politico che mi rappresenta e che voterò con convinzione. Fino ad allora non mi si venga a parlare di “voto animalista“, per lo meno con l’animalismo come lo intendo io e cioè quello “veramente radicale“.

Poi se qualcuno di noi si sente più vicino ad un gruppo politico o milita in qualche partito politico e vuole portare le nostre istanze all’interno di quel partito, ben venga, tutto fa brodo… anche se il brodo non è vegetale, perché le feste di qualsiasi partito mi pare siano ancor piene di salamelle e costine di maiale alla griglia. E questo è poco animalista e niente antispecista, anche se ci si riempie la bocca di bei discorsi sulla non violenza e di lotte civili per i più deboli e oppressi.

Per come la vedo io, il movimento radicale, deve crescere, avere peso politico, poter influenzare dal basso i nostri politici, senza colore, senza bandiere, se non quella dell’animalismo, quello vero, quello antispecista che poi è l’unico animalismo. E’ ancora un soggetto nuovo, sconosciuto, fuori dalle regole sociali, spesso contro tutti e tutto, che non trova nessuna collocazione in nessun partito politico, in nessuna religione monoteista, in nessuna società umana che fonda ogni cultura nell’antropocentrismo. Il movimento animalista per essere efficace dovrebbe far tremare l’ordinamento sociale andando contro tutto e tutti, perché tutto o quasi, si basa e vive sullo sfruttamento animale.

Fino a quando il movimento non sarà forte a sufficienza, mi accontento di lottare fuori dai partiti, fuori dalla politica, o meglio facendo scelte politiche che vadano in direzione della liberazione animale, unico mio obbiettivo finale.

Naturalmente, dato che mi ritengo un democratico, non me la prendo con chi la pensa in modo diverso da me e sono disponibile al dialogo, specie se costruttivo.

Paolo XL

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